Recensione a cura di Laura Pitzalis
Quando mi hanno proposto di leggere il libro “La salita dei Giganti” di Francesco Casolo e ho letto “saga” ho subito accettato perché è un genere tra i miei preferiti. Poi ho letto “Menabrea” e, confesso, il nome non mi diceva nulla per poi scoprire sul web che furono dei grandi imprenditori, fondatori del birrificio “Giuseppe Menabrea & Figli”, una fabbrica che ancora esiste, il birrificio attivo più antico d’Italia, un’eccellenza nel campo brassicolo non solo italiana ma internazionale.
Bevanda nata con la Storia dell’uomo, era nota come il “pane liquido” perché la sua essenza è quanto di più vicino si possa trovare al pane, avendo gli stessi ingredienti base: cereali, acqua, lievito.
Nata per caso secondo la leggenda che Giuseppe Menabrea, nel libro di Casolo, racconta alla nipote Genia, creata per un caso fortuito da una donna egiziana che lavorava nei campi di cereali sul Nilo:
A un certo punto qualcuno aveva chiamato la contadina egiziana. Il figlio stava male e lei era dovuta correre a casa. Nel giro di poco il figlio si era ripreso, ma nel frattempo si era messo a diluviare. Quando aveva smesso, due giorni dopo, il sole aveva ricominciato a splendere fortissimo e la donna era tornata al campo. Aveva ritrovato il suo cestino con i cereali sciolti nell’acqua piovana, ormai quasi bollente sotto quel sole che non ti perdonava.
“E poi? E poi cos’è successo, nonno?”
“La donna non se l’è sentita di buttare via un giorno di lavoro, e ha assaggiato quella poltiglia.”
“E com’era, nonno?”
“Buonissima.”
“Ma perché?”
“Perché quello che aveva assaggiato era la birra. E lei l’aveva scoperta.”
Ne “La salita dei Giganti”, Francesco Casolo ci racconta l’epopea ottocentesca della famiglia Menabrea che grazie a un’intuizione e a una sfida hanno saputo costruire una grande azienda ancora oggi attiva.
L’intuizione fu di Giuseppe Menabrea, capostipite della famiglia, walser di Gressoney, che dopo aver valicato a piedi i ghiacciai per commerciare lana e prodotti di artigianato in Svizzera, partecipato a numerosi mercati e fiere, aver aperto negozi e attività acquisendo una solida stabilità economica, decide di “buttare tutto all’aria” decidendo di iniziare a produrre la birra per commercializzarla.
Una decisione molto azzardata se teniamo conto che all’epoca, siamo nella metà del XIX secolo, la birra in Italia nessuno la conosceva, nessuno la beveva. Si beveva solamente nei territori appartenenti all’impero austroungarico.
Esiste una leggenda sul Monte Cervino: prima di avere l’attuale forma piramidale, il Monte Cervino si presentava come un’enorme catena montuosa oltre la quale non era possibile vedere. Un giorno un Gigante si chiese cosa ci fosse al di là di quella barriera e decise di scavalcarla ma nel fare questo la spaccò. Rimase così solo una montagna piramidale, Il Cervino appunto.
Ecco Giuseppe e il figlio Carlo, che lo volle seguire in quest’avventura, possono considerarsi dei “Giganti” perché hanno avuto il coraggio e la capacità di guardare oltre e ad imporsi nel mercato della birra nonostante fosse una bevanda pressoché sconosciuta. Come “Giganti” sono da considerare Eugenia, moglie di Carlo e la loro figlia Genia che, quando si vedono costrette a prendere le redini dell’azienda, intuiscono che anche in un settore prettamente maschile e in un periodo così maschilista, si poteva immaginare un futuro per una fabbrica gestita da donne. Attenzione però, con questo Francesco Casolo non vuole dare al romanzo un’impronta femminista che ha lo scopo di affermare l’indipendenza della donna dalla supremazia maschile, ma solo raccontarci l’unità della famiglia Menabrea dove tutti si alleano per rendere imbattibile la loro birra.
Ho parlato di persone “Giganti” che spiegherebbe la scelta del titolo “La salita dei Giganti”. Questa, però, non è l’unica interpretazione, perché i “Giganti” era il modo in cui Carlo Menabrea chiamava le altissime montagne attorno a Gressoney:
“… parlava sempre dei Giganti. Era così che chiamava quelle montagne altissime. Fin da bambino, ogni volta che alzava gli occhi li vedeva. Enormi, a picco sulla sua testa…”
Casolo con una scrittura fluida ed elegante ci racconta una storia con un ritmo coinvolgente, i cui personaggi ci rimangono impressi grazie alla sua capacità ad esaltarne l’aspetto introspettivo, aspetto che tocca non poco la nostra sfera sensoriale trasmettendoci immense emozioni. E l’autore riesce in questo perché li costruisce a partire da una serie di corrispondenze tra i protagonisti, un intimo materiale documentale trovate nell’archivio di Biella. Alcune di queste vengono inserite strategicamente nella narrazione senza tuttavia appesantirla ma arricchendola di particolari unici.
Tutta la storia anche se raccontata in terza persona, si concentra su Genia la secondogenita che è quella che s’interessa di più alla birra, che chiede, fa domande, che azzarda superando la linea che divide le cose che si possono e non si possono fare e dire. È lei che più di tutti gli altri componenti della famiglia vive un fortissimo legame con il padre Carlo e con il nonno Giuseppe che benché muoia un anno prima della narrazione è sempre presente grazie ai ricordi, dei flashback, di Gina.
…“Nonno, perché Biella?”
“Perché c’è l’acqua buona come in montagna e in un momento si arriva a Milano o a Torino. E poi stiamo costruendo la strada per tornare a Gressoney in poco tempo.”
“Ma se in casa nostra non nascerà neanche un maschio? Se non avrò neanche un fratello?”
“Meglio. Ci sei tu. Te l’ho detto che è stata una donna a inventare la birra.”
Genia, quindi, diventa la figura principale attraverso la quale raccontare tutta la storia dei Menabrea, storia che si evolve e cresce insieme alla sua età, attraverso le sensazioni di una bambina prima e di una donna poi, che vive la storia tra lo stupore dell’accensione della prima lampadina a Biella, all’uso innovativo per quei tempi degli sci, al diffondersi delle motociclette e delle auto, all’emozione di vedere le ombre cinesi prima e i cortometraggi poi, all’invenzione del telefono …
“Nei giorni precedenti – Genia l’aveva saputo da sua madre – suo padre aveva provato il telefono, un apparecchio col quale, collegati da un filo, si poteva parlare attraverso una cornetta, anche stando molto lontani. […] Genia aveva immaginato di giocarci con Albertina […] si sarebbero confidate segreti che era troppo difficile dirsi guardandosi negli occhi.”
“La salita dei Giganti”, però, non è solo una saga familiare con le loro vicende di amori, gelosie, successi, cadute; non si parla solo di birra con le sue meravigliose storie e leggende che ne riguardano la nascita e l’evoluzione … è molto di più.
È anche la storia della gente di montagna, dei walser, comunità svizzere che abitavano nel versante svizzero del Monte Rosa e che intorno al XII, XIII secolo decidono di spostarsi nella zona di Gressoney.
Della meravigliosa natura costituita dallo stupendo paesaggio dei “Giganti”, il Monte Rosa, Monte Bianco, Cervino, le montagne più alte d’Europa, che ci coinvolge non solo per la bellezza ma anche per la tranquillità e l’aria pura che si respira.
È anche la Storia vera e propria a cominciare dall’ambientazione temporale: sono gli anni splendidi della Belle Époque, delle Esposizioni Universali, della grande crescita industriale, delle grandi invenzioni. Un’epoca di relativa pace, segnata da un forte ottimismo.
Una storia a cui prendono parte personaggi storici come Quintino Sella, nel 1862 ministro delle finanze, fondatore del Club Alpino Italiano, amico dei Menabrea e figura fondamentale per la crescita e l’affermazione non solo del loro birrificio ma di tutto il settore industriale biellese.
“Pregiatissimo signore Carlo Menabrea, il 29 agosto 1882 gli alpinisti troveranno presso il Castello di Gaglianico la sua birra che fa onore non solo alla sua fabbrica ma anche a tutto il Biellese. Ma anche in altri generi di bevande i biellesi sanno distinguersi. Il signor Carpano fa un vermouth particolare che mi si dice molto apprezzato dai conoscitori. Le invio quindi un piccolo saggio rinnovandole i miei sentimenti di profonda amicizia. Dal suo devotissimo Quintino Sella”
Sua figlia Eva Stella che combatterà in quegli ultimi anni dell’800 per aprire una scuola femminile a Biella nella quale le donne potessero ricevere una vera istruzione per non essere solo formate a una vita di madri e mogli, attirandosi in questo modo le critiche perché “Sembrava troppo colta, troppo moderna, troppo poco simile a come quei giornali si aspettavano dovesse essere la figlia di un grande statista”.
E ancora, la regina Margherita che con la decisione di costruire nei dintorni di Gressoney un maestoso castello per passare le vacanze estive, sconvolge la tranquilla routine della zona: arriva la regina e vengono costruiti alberghi di lusso, arrivano i nobili e personaggi famosi come Giosuè Carducci.
Tante microstorie, quindi, che si incorporano alla saga e che producono nell’insieme un affresco unico che spero possa dare seguito ad un sequel che continui a dosare sapientemente i toni epici e le sfumature introspettive che con tanta emozione mi hanno fatto viaggiare nel tempo e nello spazio. E visto che Francesco Casolo è docente di Storia del cinema, perché non una serie tv?
Trama
La Belle Époque è alle porte e il cinema sta per essere inventato quando, il 29 agosto 1882, Carlo Menabrea organizza un sontuoso ricevimento per festeggiare l’acquisto di un castello poco lontano da Biella. Nessuno in città ha intenzione di perdersi l’evento, ma pochi sanno che l’origine di tanta fortuna risiede in una scommessa fatta trent’anni prima: il padre di Carlo, Giuseppe, walser di Gressoney, che, come i suoi antenati, valicava a piedi i ghiacciai per commerciare lana e prodotti di artigianato in Svizzera, ha deciso di puntare tutto su una bevanda, la birra. Quando nel cielo sopra il castello esplodono i fuochi d’artificio che illuminano il cortile a giorno e si riflettono sul volto di Carlo, anche la sua secondogenita Eugenia, che tutti chiamano Genia, avrebbe qualcosa da domandargli: perché, qualche settimana prima, ha insistito perché fosse lei, e non le sue sorelle, ad accompagnarlo in montagna? E perché, raggiunta la vetta, al cospetto dei Giganti del Monte Rosa, ha tanto voluto che lei, a soli sei anni, assaggiasse la birra?
Fra amori, gelosie, gloria e cadute – e un destino che, come una valanga, colpisce sempre nello stesso punto –, solo più tardi Genia intuirà quello che suo padre non aveva osato dirle: quel sorso di birra era un rito iniziatico. È lei la prescelta, l’erede designata per portare avanti la tradizione di famiglia, anche se nessuno vuole fare affari con una donna. Per riuscirci Genia dovrà, con l’aiuto della madre, diventare un Gigante, come suo padre e suo nonno e come le montagne ai piedi delle quali sono cresciuti tutti loro.