Intervista “impossibile” a RAINULFO DRENGOT, il normanno che fondò Aversa in occasione del millenario della fondazione (1022-2022)
A cura di Elide Ceragioli e Giuseppe Cuminatto
G. – Buongiorno Rainulfo e grazie per aver accettato di scambiare quattro chiacchiere con noi. Fino a pochi anni fa non sapevamo niente di te poi, mentre eravamo in Puglia, terra che tu hai particolarmente amato, Elide ti ha “scoperto” ed è stato amore a prima vista. Si stava avvicinando il 2022 ed Aversa, la “tua” città, già si stava preparando a celebrare il millenario della sua fondazione. Quale migliore occasione per conoscerti e raccontare la tua vita!
Le notizie su di te sono però scarse, frammentarie e spesso contraddittorie: ci dici qualcosa sulle tue origini?
Sarebbe sempre piaciuto anche a me sapere esattamente chi ero, quanti anni avevo di preciso, quali erano le mie radici. All’epoca però non esistevano registri anagrafici e chi scriveva la storia (o le storie) spesso lasciava spazio alla fantasia. Non ho mai saputo l’anno preciso della mia nascita. Ricordo molto bene che, quando accompagnai mio padre alla corte di Riccardo II, duca di Normandia, era il 1004 ed io ero un giovane uomo: diciotto anni, forse venti. Non ho mai saputo con certezza neppure se il primo genito fosse mio fratello Osmondo e se invece non fossi io, ma non è così importante. So che gli altri miei fratelli, Asclettino, Gilberto e Rodolfo erano più piccoli; Osmondo era andato alla corte ducale da giovanissimo ed io, nella nostra casa di Quarrel, di fatto avevo la funzione del primogenito. Quello che so bene è che la famiglia di mio padre, Riccardo Drengot de Quarrel, era in Normandia da diverse generazioni; mia madre Hafdis, invece, era una vichinga che si era unita a mio padre poco dopo il suo arrivo dal Nord.
Una cosa è certa: ho ricevuto un’educazione cristiana, ma sia mia mamma che la sua fida serva (e mia nutrice) Matelda conservavano ancora molte credenze e tradizioni norrene, così come la sua amica Gunnora, madre del duca Riccardo II, che addirittura si era sposata con rito danico.
I servi dicevano che quando mia madre stava partorendo con difficoltà mia sorella minore Astrid, senza ancora sapere che era una femmina, Matelda la stimolasse con parole di questo tipo:
“Devi aiutare tuo figlio! Da solo non può farcela ad infrangere la barriera che lo separa da noi, da te, dalle tue braccia! Spingi insieme a lui o le tenebre della morte vi inghiottiranno entrambi. Le Norne hanno tessuto il vostro destino e San Michele con la sua spada caccerà il demone che vuole strapparti la vita dal ventre. Il tuo bambino ha diritto di vedere il sole, non negarglielo! Spingi, in nome dei tuoi avi che solcarono le acque fredde del nord. Spingi in nome del Dio che ha cancellato la memoria degli antichi dei e ha inghiottito le loro menzogne, ma non ha prosciugato l’energia che tu hai ereditato! O il tuo nome sarà coperto di vergogna e un piolo ti trapasserà il cuore per impedirti di vagare per sempre come anima in pena nel mondo della nebbia, urlando il tuo dolore. Spingi in nome della Vergine Maria!”.
E. – So che questa educazione “ibrida” ha lasciato un segno profondo in te, anche sei sempre stato un cristiano convinto ed hai incontrato molti uomini di Chiesa. Ci racconti qualcosa di questi incontri?
Fin da ragazzo ho avuto occasione di frequentare non solo la chiesa del borgo in cui sono cresciuto, ma anche luoghi della cristianità importanti. Mentre ero alla corte di Normandia ho conosciuto Dudone di San Quintino, monaco amico di Riccardo II, che scrisse la Historia Normannorum, raccontando qualcosa anche di me, e sono stato all’abbazia di Fecamp. Poi col mio carissimo amico Benedict, (monaco benedettino), ho avuto una bellissima esperienza presso il santuario di Mont’Saint Michel e poi ho condiviso con lui il lungo viaggio fino alla Puglia, dove ho dimorato a lungo a Monte Sant’Angelo.
G. – Hai avuto come noi l’avventura di vivere a cavallo di due millenni. Per noi il passaggio dal secondo al terzo è stato caratterizzato più che altro da manifestazioni folcloristiche. Molti dicono invece che ai tuoi tempi fosse molto vivo il “movimento millenarista”. Sostengono che tra il popolo e anche tra i nobili e gli ecclesiastici fosse diffusa una grade paura: la fine del millennio avrebbe portato enormi catastrofi e addirittura la fine del mondo.
Onestamente io non mi sono accorto di niente. In quel momento ero un ragazzo, non più un bambino, ma ricordo di non avere avuto alcun sentore di queste paure e di questi presagi. E neppure quando sono stato in Italia, mai ho sentito discorsi in questo senso, né da parte della gente comune, né dai nobili, né tantomeno dai religiosi. Penso che siano stati discorsi fatti ad arte da qualche fanatico o da qualche setta, ma niente di serio. D’altronde voi mi confermate che anche mille anni dopo il mondo ha continuato ad andare avanti come sempre.
E. – Ci stavi dicendo del tuo viaggio verso sud. Ma prima però, vorremmo che ci dicessi qualcosa delle motivazioni che hanno spinto te e i tuoi fratelli a lasciare casa, famiglia e la vostra terra per sempre.
Dopo un’infanzia e una giovinezza felici, nella nostra casa di Quarrel con mia madre e i miei fratelli più piccoli, sono dovuto andare, come cavaliere, al servizio del mio duca, una persona stupenda, che governava con giustizia e buon senso, aiutato dalla madre Gunnora. Le vicende politiche dell’epoca le lascio ai libri di storia. Qui voglio solo dire che ho sempre goduto della sua amicizia e della sua stima. Purtroppo Riccardo era legato da profonda amicizia con Guglielmo di Repostel, comandante dei suoi cavalieri, che invece era tutt’altro che un brav’uomo. Un giorno si scoprì che Guglielmo aveva abusato di molte ragazzine fra cui mia sorella Astrid. Osmondo lo sfidò a duello per riparare l’onta, come era prassi a quel tempo, e lo uccise. Riccardo era in debito con lui, che gli aveva salvato la vita in battaglia, e gli risparmiò la sua, ma condannò lui e noi, suoi fratelli, all’esilio. Così partimmo alla volta dell’Italia meridionale, accompagnati da un gruppo di circa duecento cavalieri.
Devoti a San Michele, l’arcangelo guerriero, per viaggiare sotto la sua protezione, decidemmo di percorrere la via che unisce i grandi santuari a lui dedicati, partendo da Mont’Saint Michel per arrivare a Monte Sant’Angelo passando dalla Sacra di San Michele: quella che ancor ora si chiama “via micaelica”.
G. – Prima ce l’hai promesso: è ora di dirci qualcosa sugli incontri che hai fatto durante questo lungo viaggio.
Siamo partiti nell’autunno del 1015 e siamo arrivati in Puglia molti mesi dopo. Un viaggio lungo, faticoso, pieno di insidie, di difficoltà di ogni genere, ma anche ricco di bellissime esperienze e di incontri indimenticabili. Ho viaggiato in compagnia dei miei fratelli (che hanno condiviso con me il comando del gruppo), del fidato e insostituibile amico Benedict, di personaggi particolari come il mercante fiorentino Bata o come Njord di Rouen, cavaliere omosessuale: condizione che all’epoca era ben più difficile da affrontare che non oggi.
Ricordare tutti quelli che in quel lungo percorso si sono trovati sulla nostra strada è difficile e sarebbe lunghissimo, ma alcuni non posso non nominarli, perché hanno lasciato un segno profondo e, in qualche modo hanno condizionato la mia vita successiva. Odilone di Cluny: un santo, ma anche un monaco pieno di umanità e di sensibilità, oltre che di cultura e saggezza. Ha saputo capirmi senza troppe spiegazioni ed ha voluto che fossi io il suo messaggero presso papa Benedetto VIII (al secolo Teofilatto II dei conti di Tuscolo), che poi mi accolse come un amico e mi considerò suo uomo di fiducia a Monte Sant’Angelo. Anche gli abati delle abbazie di Novalesa e della Sacra di San Michele: sono stati loro ad affrontare e gestire con profonda sensibilità e grande umanità il problema dell’omosessualità, che aveva sconvolto la compagine dei cavalieri. Come potete capire, i religiosi della mia epoca non erano così retrogradi e “medievali” come molti vostri contemporanei li descrivono.
E. – Con questo ci hai detto qualcosa di importante sul grande viaggio. Ora un’ultima domanda, quella fondamentale, forse. Molto di sa di cosa hai fatto dopo esser giunto nel Sud Italia, perché le vicende che travagliavano quelle terre (e l’intera Europa) sono note, anche se complesse, ma una cosa ci incuriosisce: perché ti sei stabilito là e non hai mai cercato di tornare in Normandia?
Il distacco dalla Normandia è stato duro, soprattutto la lontananza dalla mia famiglia, ma eravamo stati cacciati con la sentenza di morte in caso di ritorno e poi in Italia mi sono trovato veramente bene. Il papa mi ha affidato prima l’incarico di costruire un rifugio per i pellegrini di Monte Sant’Angelo e la “torre di Rainulfo” ancora svetta dopo mille anni dentro le mura del Castello di Federico II. Poi ho servito diversi nobili, ho combattuto per loro, mi sono fatto apprezzare e ricompensare. Nel 1018 (o forse era già il 1019?), mi sono state donate le terre e le poche case di San Paolo ad Versum: ne ho fatto la mia casa e poi la mia città. Nel 1030 ricevetti il titolo di primo Conte di Aversa, la città che avevo fondato e fatto crescere negli anni. Ora il 1022 è considerato l’anno della fondazione, che alcuni però vorrebbero datare 1030: in effetti, si è trattato di un lavoro di lungo e non so quale potrebbe essere il fattore che definirebbe una precisa data di fondazione. Sicuramente quando, nel 1030, mi è stato attribuito il titolo di Conte di Aversa la città era viva e attiva: frutto dell’attività di molti anni di lavoro intenso.
Elide, nel tuo libro mi metti in bocca queste parole:
“Amo questa terra, quasi mi avesse generato. Il sapore dei suoi frutti, l’aria dolce, il mare, così azzurro da specchiare e superare in bellezza il cielo, mi hanno avviluppato l’animo. Non tornerei in Normandia, che mi rigettò come madre ingrata. Qui, nel meridione d’Italia costruirò la mia casa e nasceranno i miei figli.”
Non so se dissi esattamente così, ma confermo tutto. Unico rimpianto, forse, è il non aver potuto avere figli, ma la mia famiglia ha lasciato una lunga scia in quelle terre, un’eredità di cui mi sento orgoglioso. E sono felice che, dopo mille anni, il mio nome e la mia persona siano ancora un ricordo vivo ed attuale.
A questo proposito vi chiedo di ringraziare da parte mia tutti i miei concittadini attuali, in particolare quelli che stanno mettendo in atto tante iniziative nel mio ricordo e che hanno approfittato del dissenso sulla data di fondazione di Aversa per dedicare ai festeggiamenti del millenario otto anni: così son tutti contenti… e anch’io!
Grazie di cuore, Rainulfo! Il tempo è volato e molte domande sono rimaste inespresse. Se qualcuno di quelli che leggeranno questa intervista avrà altre curiosità, perplessità o approfondimenti da chiedere torneremo a disturbarti e sarà sicuramente un piacere continuare a dialogare con te. Grazie del tempo che ci hai dedicato e … a presto!
Basandosi su fonti e notizie spesso discordi o imprecise, con fervida immaginazione, ma con rigorosa adesione ai fatti noti e precisa coerenza all’epoca, la vita di Rainulfo Drengot e dei suoi fratelli rivive nel romanzo dalla sua adolescenza all’insediamento che prelude la fondazione di Aversa. Agli albori del secondo millennio, fatti e personaggi di fantasia si amalgamano con luoghi, persone e situazioni attentamente documentate mentre la narrazione segue le strade percorse dai protagonisti in Normandia, Francia e Inghilterra, fino al viaggio più lungo e definitivo verso sud. Un viaggio dove all’angoscia della guerra e dell’incertezza si cerca di trovare conforto in un forte sentimento religioso, dove i valori ancestrali della famiglia, dell’amicizia, della lealtà e dell’onore non sono mai secondari.