Un racconto di Alessandro Spalletta
“Maremma…”, dicono i toscani, e poi giù con una serie di epiteti che esaltano la tipica fantasia italiana. “Maremma amara”, per dirne una (indubbiamente tra le più eleganti); ma davvero la Maremma è sempre stata un luogo così poco ameno da meritarsi tutti gli improperi che gli rivolgiamo? Sì, rivolgiamo, perché sono toscano anche io, e per giunta maremmano: sebbene la ami profondamente, a volte gliene dico di tutti i colori. Forse la amo persino un po’ di più per questo, perché non si offende mai. Altera e selvaggia, ma dolce come una madre, continua a essere meravigliosa senza cedere alla ripicca. Ma non divaghiamo e torniamo a noi, alla storia della mia cara terra, vera protagonista dei miei romanzi.
No, sicuramente non è sempre stata amara, anzi, tutt’altro. Lo è diventata, questo sì, ma non lo è sempre stata e, per fortuna, oggi non lo è più.
Da dove nasce questa poco invidiabile e, almeno in parte, immeritata fama? Innanzitutto dai versi di un poeta. “Del” poeta, sarebbe meglio dire. È proprio Dante Alighieri, infatti, a stabilire i confini di questa splendida terra e a definirla per primo con una descrizione poco lusinghiera. “Non han sì aspri sterpi né sì folti; quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno; tra Cecina e Corneto i luoghi cólti”, scrive, paragonandola a una bolgia infernale. Non contento, insiste: “Siena mi fè disfecemi Maremma” fa dire alla sventurata Pia dei Tolomei, come se fosse colpa della Maremma che la sua famiglia l’avesse data in sposa a un uomo molto più anziano di lei, distruggendo i suoi sogni di fanciulla.
Nonostante il triste fato letterario, all’epoca di Dante, la Maremma era tutto tranne che una terra dura e inospitale. Come chi ha letto la “Saga del Grifone” già saprà, la potente Siena era così desiderosa di mettere le mani sulla fertile pianura grossetana, con i dolci colli che vi si affacciano e l’affascinante monte che la guarda dall’alto, che non badò a spese per strapparla ai conti Aldobrandeschi né per sedare le legittime ribellioni di un popolo tiranneggiato da uno straniero, seppur vicino.
È risaputo che durante il medioevo Siena era una realtà ricchissima grazie ai suoi commerci e all’abilità che i suoi cittadini dimostrarono nella gestione del denaro. La famigerata Gran Tavola dei Bonsignori è un esempio dell’eccellenza che raggiunsero i senesi nell’attività bancaria, ed è un esempio tra tanti, sebbene di particolare lustro. Può sembrare plausibile, quindi, che una città di sagaci mercanti e abilissimi uomini d’affari possa sprecare le sue sostanze per accaparrarsi diritti su una regione simile a un inferno in terra?
Sembra decisamente improbabile.
Infatti, grazie ad evidenze storiche ed archeologiche, oggi sappiamo che in epoca medievale la Maremma era un luogo fertile e desiderabile. La fitta e intricatissima selva di cui parlava Dante altro non era che la prospera macchia mediterranea. A partire dalle meravigliose dune del litorale, ricopriva una buona parte del territorio, come per fortuna fa ancora tutt’oggi. Si trattava di boschi ricchi di selvaggina, sì aspri, ma generosissimi con i cacciatori. Al contempo, la pianura era prodiga con chi la coltivava. “Con il grano maremmano ci si poteva sfamare mezza Toscana”, per usare le parole che attribuisco a un altro personaggio dei miei romanzi.
Non finiva qui. È difficile immaginarselo, soprattutto per chi conosce quelle zone, ma la pianura di Grosseto era per larga parte occupata da un vasto specchio di acqua salata, simile all’odierno lago di Burano, oasi naturalistica nei pressi di Orbetello. Il lago si chiamava Prile ed era una formidabile fonte di reddito. Si prestava ottimamente all’allevamento ittico, in particolare delle anguille e, soprattutto, era una fonte di sale apparentemente inesauribile.
Il sale era una fonte di ricchezza enorme e sicura. Più sicura degli interessi sui prestiti, più sicura, forse, dell’oro stesso. Per insaporire le pietanze dei ricchi, serviva il sale; per conservare i cibi dei poveri e degli eserciti serviva il sale e tutti dovevano mangiare, ricchi, poveri e soldati. Senza sale non ci sarebbe stato cibo e anche se si poteva vivere senza oro, non si poteva vivere senza nutrirsi.
Così spiega il mio Filippo Bonsignori ne “Il Cavaliere del Grifone”. I suoi alter ego nella realtà, a Siena, dovevano pensarla in maniera molto simile. Con la società della “Dogana del Sale”, uno dei primi esempi documentati di monopolio, La Repubblica senese si assicurò le enormi ricchezze ricavate dalle fiorenti saline del lago Prile (lasciando a malapena le briciole ai poveri grossetani).
Almeno fino agli anni ‘30 del XIV secolo, quindi, la Maremma era un vero paradiso, non un’aspra landa coperta di sterpi che distrugge giovani fanciulle. Verdi pascoli, terra fertile, boschi ricchi di selvaggina e saline tra le più redditizie dell’intera cristianità. Basti pensare, a tal proposito, che le famose saline di Ibiza producevano annualmente una quantità di sale all’incirca cinque volte inferiore rispetto a quelle grossetane.
Purtroppo, d’un tratto, l’idillio svanì. Nel 1333 poderose alluvioni stravolsero la geografia della regione. Il fiume Ombrone si scavò un nuovo letto ad alcuni chilometri dalle mura di Grosseto, privando così la città del suo prospero porto fluviale. Il lago Prile perse la sua salinità e di conseguenza la ricchezza derivante dallo sfruttamento dell’oro bianco iniziò a scemare. Come se non bastasse, la tremenda peste del 1348 colpì la Maremma con particolare violenza. Le acque iniziarono a imputridire, in parte anche a causa dell’intenso sfruttamento dei “paschi”, i pascoli gestiti da un’altra società senese che ricavò sconfinati profitti da questa lucrosa attività.
La zanzara anofele iniziò a farla da padrona. Con essa, la malaria dilagò. I Medici investirono considerevoli capitali e commissionarono a Baldassare Lanci la costruzione di un’imponente cerchia muraria, ben conservata e visitabile tutt’oggi, a difesa di Grosseto, ma non bastò a salvare la regione dalla sventura.
“Tutti mi dicon Maremma, Maremma
ma a me mi pare una Maremma amara.
L’uccello che ci va perde la penna
io c’ho perduto una persona cara.Sia maledetta Maremma, Maremma
sia maledetta Maremma e chi l’ama.Sempre mi trema’l cor quando ci vai
perché ho paura che non torni mai”
Così recitava una famosa canzone popolare degli inizi dell’800. Allora sì che la Maremma si stava guadagnando sul campo la sua triste reputazione. La fosca profezia di Dante si era avverata. Furono tempi molto difficili, come raccontano efficacemente questi struggenti versi.
Per fortuna, l’indimenticato Leopoldo II di Lorena, decise di iniziare un’imponente opera di bonifica. Si trattava di un’impresa titanica ma venne portata a termine, grazie al coraggio, all’ingegno e alla dedizione di molti uomini, veri eroi, che combatterono per quasi due secoli.
Oggi la Maremma è un luogo incantevole. Ha conservato la sua anima selvaggia e riesce a stupire per la sua naturale bellezza. Da Massa Marittima a Pitigliano, dall’Amiata a Orbetello e poi giù fino all’antica Corneto, la Maremma è un luogo dell’anima, la mia prima Musa.
Mi permetto un piccolo consiglio. Visitatela, assaporatela fino in fondo, perché ne vale la pena, in ogni stagione.
E se non potete partire oggi stesso o domani, nel frattempo, scopritela tra le pagine della “Saga del Grifone”.
Buon viaggio.
Siena, A.D. 1298 La bellissima Elena Bonsignori è il sogno proibito di qualunque uomo. Lunghi capelli neri, occhi insondabili e il corpo sinuoso di una dea. Sarà lei a premiare il vincitore del torneo che suo fratello Filippo ha organizzato in Piazza del Campo.
I piani di Filippo però non si fermano qui. Pur di riconquistare la gloria che la sua famiglia ha perduto, è pronto a rendere schiavo un intero popolo.
Tra amori, battaglie, tradimenti e colpi di scena, c’è un solo ostacolo davanti ai sogni di potere di Filippo.
Si chiama Bino degli Abati del Malia.
Un romanzo storico che dà voce a eroi senza volto, raccontando una battaglia antica quanto il mondo: la lotta contro l’oppressione, la lotta per la libertà.
Firenze, A.D. 1312 Una terribile minaccia incombe. La Maremma è di nuovo in pericolo. Bino degli Abati del Malia dovrà combattere ancora.
L’Imperatore del Sacro Romano Impero è sceso in Italia con i suoi invincibili cavalieri. Ha già conquistato il Nord ed è pronto a mettere a ferro e fuoco l’intera Toscana. Da sole, le ricche città guelfe sono troppo deboli per fronteggiarlo. L’unica speranza è mettere da parte le vecchie inimicizie e fare fronte comune.
Sotto l’egida dei Medici, Siena e Grosseto dovranno combattere insieme contro condottieri dal nome immortale.
Il solco scavato da ribellioni, tradimenti e delitti è profondo: per Filippo Bonsignori e Bino quest’alleanza è la più ardua delle imprese. Tra lealtà e inganni, eroi, uomini di potere ed epiche battaglie, l’astuzia dei Bonsignori e il coraggio degli Abati del Malia dovranno incrociarsi un’altra volta per scrivere la storia.
Toscana, A.D. 1331 La guerra di Siena contro i nobili fedeli all’Impero non è ancora finita.
Lo scaltro Guidoriccio da Fogliano comanda gli eserciti della Repubblica. Abile e spavaldo, il condottiero emiliano è inarrestabile. I grossetani assetati di vendetta e il gelido Filippo Bonsignori si schierano al suo fianco: il destino del Conte Aldobrandeschi sembra segnato.
Le ferite inferte alla Maremma dagli eserciti di Ludovico il Bavaro non si sono ancora rimarginate. Bino degli Abati del Malia dovrà guidare il suo popolo verso la salvezza, ma dovrà scontrarsi col destino per riuscirci.
Sotto le ceneri dell’alleanza contro il nemico comune, covano le braci di un conflitto più antico. Mentre Firenze e il Regno di Napoli restano a guardare, Pisa è pronta a intervenire e a far valere tutto il suo potere.
La partita non è ancora finita.
La Toscana è la scacchiera e i pezzi si muovono inesorabili.
Il momento della resa dei conti è finalmente arrivato.