Inauguriamo un nuovo #MeseStorico di approfondimenti sul nostro blog. Per questo nuovo mese abbiamo pensato di coinvolgere gli autori dei nostri amati romanzi storici, chiedendo loro di raccontarci i personaggi dei loro libri. Apre le danze Luigi La Rosa che ha intervistato Vincenzo Bellini per noi!
Gentile maestro Bellini, possiamo scambiare due chiacchiere?
Sì, ma facciamolo camminando. Detesto starmene seduto, preferisco passeggiare, soprattutto al mattino, e respirare tutta la freschezza che mi circonda.
Vorrei chiederle se c’è stato un momento della sua vita, della sua infanzia, nel quale ha sentito, in maniera violenta, il germogliare della vocazione musicale.
Non ne ho coscienza. Posso dire che la musica mi ha accompagnato sempre, fin dai primi aliti di vita. Mio padre Rosario si esercitava in casa, e nonno Vincenzo Tobia era organista da chiesa e maestro di cappella. Sono cresciuto in mezzo alla musica e agli strumenti musicali, e apprenderla, amarla, è stato naturale come imparare a nutrirmi o a stare in piedi.
Di che tipo di musica si trattava?
Musica sacra, soprattutto, e strumentale. A Catania, all’epoca dei miei dieci anni, la sola musica possibile era quella che si sentiva nelle chiese, oppure ai concertini privati delle case aristocratiche. Di sicuro non conoscevo ancora la musica prestata al canto e al teatro: una scoperta tutta napoletana.
Quanto è stata importante una simile scoperta?
Diciamo che mi ha cambiato la vita. Napoli è stato specialmente questo, con i suoi teatri alla moda, con i suoi fermenti musicali e la presenza dei massimi compositori del tempo. Per fare soltanto qualche nome: Gioacchino Rossini, Saverio Mercadante e Gaetano Donizetti.
Qual è stato il suo rapporto personale con Donizetti?
Possiamo cambiare domanda?
Non sarebbe carino per i lettori. La prego di rispondere.
Cercherò di esser sincero: lo consideravo un grande, e l’ho temuto fino alla fine. Ho sempre avuto paura che la sua musica potesse contrastare con la mia, che il pubblico si lasciasse influenzare, che in qualche modo finisse per contrapporci l’uno all’altro. Cosa che in un certo senso è accaduta, e mi spiace moltissimo. Non avrei voluto essere additato come il suo rivale. Lo ricordo come un tipo giovane, gentile, sicuramente educato e avvezzo alle buone maniere. Ma lo percepivo troppo lontano, troppo diverso da me. Anche musicalmente.
Era un mondo difficile quello del teatro?
Era terribile. Provi a pensare a un campo di battaglia. Solo il migliore di noi avrebbe vinto: per gli altri non c’era alcuno spazio. Siamo stati educati con questo condizionante terrore di non farcela, di non primeggiare, di non essere il primo tra i grandi. E questo ha creato parecchia insicurezza, molta infelicità, non poche rinunce. Credo che difficilmente lei potrà capire, la sua è un’epoca talmente diversa.
Ha ragione. Eppure lei è riuscito a diventare un divo internazionale, il più pagato dei compositori – il prediletto delle folle.
Avrei avuto altra scelta?
Si ha sempre la possibilità di scegliere. Non crede?
No, non lo penso affatto. Le scadenze, gli impresari, l’assillo della composizione e della consegna, l’attesa dei versi dei librettisti – spesso pessimi. È stato un tormento continuo, che ha logorato le più grandi intelligenze del secolo. Solo pochi di noi possono dire di avercela fatta, ma a prezzo di sofferenze e rinunce atroci.
Quali sono state le sue?
Credo si tratti di una domanda fin troppo personale.
Quindi non è disposto a rivelarle?
Lei mi è simpatico: a lei voglio dirlo. La più grande è stata il legame con la mia terra, con la mia città di Catania, con la mia famiglia. Andare lontano ha significato strapparmi da tutto questo e sentire la solitudine come un morso bruciante nella carne. Nulla mi ha mai liberato di questa tremenda sensazione.
Grazie a quale rimedio è sopravvissuto?
Io ero un musicista, avevo l’arte. E gli artisti, in un modo o nell’altro, sopravvivono sempre.
Anche quando il prezzo da pagare è altissimo?
Guai se non lo fosse, produrrebbero pessima arte.
E con Florimo, quanto è stata importante la sua presenza nella sua vita?
Moltissimo. Ma è stata anche fonte di incomprensioni, di dolori enormi, che hanno segnato il mio cuore.
Forse è sempre così quando si ama.
L’ha detto.
Non voglio aprire il capitolo delle relazioni sentimentali: so bene che racchiude moltissima sofferenza. Ma vorrei ci dicesse qualcosa, anche soltanto una parola.
Le ho amate tutte, con tutto me stesso, ma lo stesso me stesso le ha tradite perché il suo legame assoluto era la musica. Non si può chiedere a un artista di darsi completamente alla realtà. Mi ero illuso di riuscirci. Anche loro si erano illuse. Maddalena, Giuditta. L’amore aveva accecato tutti. Abbiamo dovuto ricrederci, ciascuno col proprio carico di fallimento e dolore. Vivere è stato portarne il peso fino alla fine, fino all’ultimo respiro.
Maestro, un’ultima richiesta. Quale tra le sue opere è la sua prediletta?
Non può esservi predilezione per chi partorisce la bellezza. Ogni pagina, ogni nota affidata al pentagramma racchiude una sofferta goccia di sangue. Solo le opere che non sono riuscito a scrivere costituiscono una specie di fitta che ancora mi opprime. Anche da questo scialbo aldilà mi sembra di sentirla, di percepirne l’amara bellezza. Ma è una bellezza pallida, quasi un’ombra. E lieve quanto uno spettro.
26 dicembre 1831. L’esordio di Norma sul palcoscenico della Scala segna insieme l’apice creativo della musica di Vincenzo Bellini e un clamoroso fiasco, che spinge il siciliano a fuggire da un teatro in tumulto e vagare per una città infreddolita. Un uomo lo insegue, impeccabile nell’eleganza ma distaccato e altèro nel portamento; una figura che attraversa, avvolta dentro una nube di mistero, tutta la vita del musicista – quell’esistenza che somiglia tanto a un romanzo, e che le pagine ritraggono alla luce di una passione travolgente e inesausta.
Dall’infanzia catanese agli anni difficili della formazione napoletana, e poi il debutto nella lirica, i viaggi, la fama, il trasferimento a Milano e gli eccessi, il repertorio leggendario degli amori infelici. Quello per la giovane Maddalena, figlia del magistrato Fumaroli. Il legame controverso e pericoloso con Giuditta Cantù. Le seduzioni sottili di Giuditta Pasta. Il desiderio etereo e mai appagato per Maria Malibran, diva assoluta e sublime interprete, nella stagione londinese del compositore.
E poi Parigi, l’irrompere della malattia e la fine precoce, la solitudine romantica del genio e l’enigma dell’oscuro ammiratore che finalmente spalanca lo scrigno dei suoi segreti, sciogliendo l’intreccio della narrazione. Tessere di un mosaico suggestivo e racconto di un universo – quello del melodramma italiano – che l’abile penna dell’autore trasforma in magnifica avventura, tra puntuale ricostruzione storica e opera d’invenzione, fedele tanto alle verità nitide della biografia, quanto ai tradimenti della finzione.