Recensione a cura di Claudia Babudri
Nugoli di ragazze aspettavano i Cinque di Liverpool fuori dall’albergo con una vibrante impazienza, accalcandosi al di là della rete, cercando di superarla ad ogni costo pur di avvicinarsi di un dito ai loro idoli. Ogni volta era la stessa storia. In teatro, negli studi televisivi, per strada: le fan impazzite cercavano di eludere la sicurezza in preda alla frenesia che la musica dei Beatles scatenava in loro.
Alcune svenivano, altre urlavano, si dimenavano, piangevano pur di avere un briciolo dell’attenzione dei musicisti, croce e delizia dei loro animi. Stessa cosa era successa ad Elvis prima, stessa cosa accadde a Michael Jackson dopo. In generale, le star internazionali, in un afflato unico con la loro musica, sono elevate a divinità: i fan pendono dalle loro labbra, li seguono ovunque, per loro farebbero pazzie, nutrendo stima e, in alcuni casi, forte attrazione sensuale dovuta a quell’accordo, quell’intonazione vocale, quel rombo di chitarra o assolo di batteria.
Pensiamo solo alle groupies: ragazze innamorate della musica attraverso i musicisti, sfegatate, pronte a tutto per loro. Marco Beghelli, professore associato di Filologia musicale, Forme della poesia per musica e di Drammaturgia musicale all’Università di Bologna, prima docente di Storia della musica nel Conservatorio di Alessandria, nell’Istituto musicale di Ravenna e nel Conservatorio di Pesaro, ha trattato un simile argomento nel suo contributo sull’erotismo canoro in relazione alla lirica.
Il fenomeno, gradito ai cacciatori di emozioni, parte dall’ascolto delle voci degli artisti: si trasformano in qualcosa di corporeo, l’artista viene associato al personaggio che interpreta per una sorta di infatuazione amorosa, di richiamo erotico, fatale per i cosiddetti “ultrà del loggione”, vinti dalle voci femminili gravi o maschili acute. Si spiega così il successo dei castrati nella lirica, come il celebre Farinelli. La sua ambiguità, unita alla voce, scatenavano le più passionali fantasie.
Come Farinelli in ambito canoro, anche Nicolò Paganini fu la rockstar del suo tempo, capace di scatenare le più vive pulsioni alla stregua degli artisti dei nostri giorni. Adorato, ma anche denigrato, visse una esistenza intensa. La vita, il mito, le forti passioni e la grande umanità dell’uomo consacrata ad Apollo ed Euterpe, sono state magistralmente raccontate da Giovanna Strano ne “Il diavolo sulla quarta corda. Nicolò Paganini e il suo Cannone”, romanzo edito da Soncini.
Sarò sincera: ho letto il romanzo in due giorni, rapita da una narrazione scorrevole ed essenziale nel suo giusto descrivere la vita, l’uomo e l’artista. Nelle mani di Paganini, maestro violinista, quello strumento prendeva vita. Definito “Cannone” per il suono armonico e potente, è opera d’arte. “Cerchiamo la pianta adatta” disse al suo servitore Giuseppe Guarnieri del Gesù, maestro liutaio, creatore di quella meraviglia.
“Abbiamo bisogno di un legno che presenti una minima perdita di volume, eccellente stabilità, scarsa presenza di linfa, resistenza ai parassiti, straordinaria elasticità, assenza di fessure e di tensioni, durata ottimale nel tempo […] La nostra pianta deve avere oltre duecento anni d’età, un diametro superiore a sessanta centimetri e una altezza tra trenta e trentacinque metri.”
All’accurata scelta del materiale e alla certosina lavorazione, si unì la bravura del maestro. Da quell’incontro, scintille.
“Sembrava che il violino e il musicista si conoscessero da tempo, dalla notte dei tempi. In quell’stante si erano ritrovati, ricomponendo l’ordine delle cose. L’armonia perfetta di un connubio senza eguali.”
Paganini, figlio di Francesco Antonio, suo primo manager, risoluto nel fare del figlio “un grande musicista, a qualsiasi costo”, aveva solo quattordici anni quando si esibì al Teatro di Sant’Agostino di Genova con il maestro Rodolphe Kreutzer. Fu in quella occasione che il giovane artista comprese il suo talento, omaggiato non solo dall’esperto collega ma anche da Giuseppina Bonaparte. Leggendo quest’episodio, ho potuto compenetrarmi nell’animo del giovane Nicolò, “tremante per l’emozione di trovarsi in quell’ambiente raffinato ed elegante, al cospetto di persone influenti che lo avrebbero esaminato nei minimi dettagli”, confrontandolo con il maturo violista.
La Strano è riuscita a restituire l’emozione ma anche i mille timori nell’animo del giovane esordiente nel quale, in barba ai tentennamenti, “l’energia più intima aveva avuto la supremazia su ogni debolezza”, animando le sue braccia e le sue mani sulla tastiera dello strumento, senza alcuna possibilità di fallire. E da Genova, la sua fama lo condusse a Lucca: qui suonò alla Basilica di San Frediano e poi, dopo questo primo grande successo, a Palazzo Controni, alla corte del marchese Di Negro.
Poi, la svolta: Elisa Baciocchi, sorella del Bonaparte, principessa di Lucca e Piombino, lo reclamò a corte, aprendogli le porte del Teatro di Verzura, infatuata sensualmente della sua musica, del carisma dell’artista e della magia della sua arte. Una infatuazione possessiva, in una gabbia dorata dalla quale il maestro riuscì alla fine a liberarsi.
Paganini non era un bell’uomo: alto e magro, non di radici robuste, dal naso aquilino e il volto non regolare. Eppure, era magnetico predatore: con il suo carisma e la sua musica vibrante, scatenava erotismo e passione bruciante in molte donne tra le quali le sue blasonate mecenate. Ebbe molti sostenitori ma anche tanti dileggiatori, convinti che suonasse bene per opera di qualche diavoleria. I più cattivi, ritenevano la sua ombra figlia del Diavolo.
Malignavano che avesse stretto un patto con lui. Dicerie, sfruttate da Paganini intelligentemente, andando avanti per la sua strada, con quel suo fare controcorrente e l’animo risoluto, pronto a soddisfare le sfide che i nobili gli lanciavano, i loro capricci, suonando sempre con immutata bravura. Si esibì in molti teatri e corti d’Italia, anche nel romano Argentina, in cui diede lezione ad alcuni esordienti boriosi, “asini”, rei di aver messo in dubbio il suo genuino talento. Non sempre i nobili spettatori venivano accontentati. La Strano riporta il celebre episodio del Carignano di Torino. Carlo Felice pregò il maestro di ripetere un brano. Paganini, gli negò il bis al fine di non rovinare l’improvvisazione precedente. La controversia causò l’annullamento di un evento cittadino in programma e dei concerti previsti a Vercelli e Alessandria.
Al di là di questo incidente, il maestro conobbe persone straordinarie: Madame de Staël, Ugo Foscolo e Jean-Auguste-Dominique Ingres. Al suo fianco, gli amici del “Triumvirato musicale”, Gioacchino Rossini e Mauro Giuliani. Si legò davvero a poche donne nella sua vita. L’ultima, divenuta sua sposa, fu il soprano Antonia Bianchi. Dalla loro relazione burrascosa, nacque Achille, il tesoro più grande, capace di colmare il suo senso di vuoto, le sue paure, le sue fragilità. Onnipresente ad ogni concerto, suo figlio fu l’erede, depositario e custode della memoria e del violino con cui l’artista riscrisse la storia della musica. Quando Paganini morì, dopo un lungo calvario, Franz Liszt scrisse:
“Paganini è morto. In lui si spegne uno di quegli spiriti potenti che la natura sembra richiamare a sé: con lui scompare un fenomeno unico nella sfera dell’arte […] Sulle orme ch’egli lascia dietro di sé, nessuno cammina; il suo nome è di quelli che si pronunciano soli.”
Descrizione
“Quando la ragione non riesce a dare spiegazioni sulle capacità straordinarie di alcuni grandi uomini, che hanno segnato con il loro talento il cammino dell’umanità, subentra il sospetto, la calunnia, la menzogna. È quello che è accaduto a un genio indiscusso della musica di tutti i tempi: Nicolò Paganini. Il romanzo trasporta il lettore in un mondo di armonia e suoni, con l’intento evidente di manifestare la magia della musica attraverso quella delle parole, quale ragione profonda dell’esistenza.”