Articolo a cura di Michela Rivetti
28 giugno 1517, Reggio Emilia.
La città è in fermento nei preparativi per la festa di San Pietro all’indomani. Davanti alla chiesa omonima già è esposto il palio morello di sarza per il quale si competerà; sopra vi è dipinto un San Pietro con tre insegne: uno scudo bianco e rosso, arma dei Gozzadini, due stemmi bianchi e blu il primo con un cane rampante, il secondo con ali e artigli d’aquila, sono le insegne di Scaioli e Messori, le due famiglie di maggior prestigio in città di questi anni. Già ricche e influenti in passato, la loro devozione alla Chiesa è stata ben ricompensata, da quando la città è stata sottratta al Duca d’Este e posta sotto il governo dello Stato Pontificio, cinque anni prima.
Benché la mente dei cittadini corra ai balli, ai canti e ai cibi dei festeggiamenti, una leggera tensione serpeggia e impedisce di godere appieno dei divertimenti: è noto che il Governatore ha permesso di entrare in città e partecipare alle celebrazioni a Vincenzo Scaioli, capo Ghibellino, reo di aver ucciso la notte del lunedì di Pasqua il Conte Giambattista Bebbi, capo dei Guelfi.
Il Reverendo Giovanni Gozzadini, bolognese, che qualcuno dà già per Cardinale nelle nomine che farà Papa Leone X da lì a pochi giorni, entra nella cattedrale all’ora terza per assistere alla messa, presso il primo altare sulla destra, detto della Madonna del Pilastro.
Dall’altro lato della piazza, alla fine di una lunga fila di edifici di pubblici uffici, si trova un solo palazzo privato, quello dei Conti Bebbi. Sotto al porticato, il Conte Paolo recita il rosario con Zenone Cocconi, mentre sei uomini si allontanano da loro ed entrano in duomo.
Il più umile del manipolo, un ciabattino di nome Bitolla, si inginocchia alle spalle del Governatore: è troppo misero per destare sospetto.
La messa procede e, durante la consacrazione, mentre il prete eleva il corpo di Cristo, Bitolla s’alza, trae da sotto le vesti il massiccio pugnale pistorese, che gli appesantisce la mano. Mena un colpo contro la testa del Governatore. La lama squarcia la tonsura e la punta risuola contro il muro.
Un urlo di dolore, Gozzadini balza in piedi: “Ah, scellerato! Ti farò impiccare!”
Il ferito corre lungo la navata, inseguito dai congiurati. Gli alabardieri deputati alla sua protezione rimangono immobili. Uno sparo sul sagrato.
Il Governatore corre, grida: “Aiuto, aiuto!”
Sale la scala dell’altar maggiore ma nella fretta di superare i gradini, i piedi si ingarbugliano nella veste e cade. Ronche e spiedi degli assalitori lo trafiggono. I pochi famigli, che si sono mossi a difenderlo, periscono con lui.
Il corpo è denudato. I genitali sono tagliati e conficcati in cima a una picca. Alcuni dei congiurati attraversano la chiesa, in mezzo ad altri delitti perpetrati, per ostentare il macabro trofeo davanti a Palazzo Bebbi. La piazza è già occupata dai loro compagni.
A sera si contano una trentina di morti, decine di case messe a sacco, alcune bruciate.
Gli antefatti
Facciamo un passo indietro e procediamo con ordine.
La congiura che porta all’uccisione del Governatore ecclesiastico, Giovanni Gozzadini, è il culmine di un’aspra faida che insanguina le strade di Reggio Emilia dall’inizio del secolo e che vede come protagoniste da una parte la famiglia dei Conti Bebbi (Guelfi e fedeli agli Este di cui sono i rappresentanti informali), dall’altra le famiglie degli Scaioli e degli Zoboli (Ghibellini e favorevoli al governo della Chiesa).
Le rivalità sorte a metà del XV secolo tra le differenti correnti politiche si acuiscono negli anni e si aggravano con sporadiche aggressioni subite dai Bebbi. Nel 1506 una contesa nata in un convento tra la Badessa, zia dei Bebbi, e una suora degli Scaioli fa precipitare la situazione e porta gli Scaioli alla guida della fazione ecclesiastica.
Anni di risse e scambi di omicidi e mai che le autorità intervengano con decisione. Gli uomini neutrali appendono fuori dalla porta di casa una formella di ceramica che dichiara: Pars mea Deus.
Nel frattempo, il Duca Alfonso d’Este entra in conflitto con Papa Giulio II. Nell’agosto del 1510, al contrario di Modena che si arrende, Reggio rifiuta di aprire le porte all’esercito pontificio e resiste per altri due anni.
Nel 1512 è firmata la prima pace tra Bebbi e Scaioli e Zoboli ma la durata è assai breve.
Nell’estate del 1513 viene nominato Governatore di Reggio Giovanni Gozzadini: bolognese, Dottore in entrambi i diritti, chierico di camera di Papa Giulio II. Aveva ricevuto onori e incarichi a Bologna, dopo la cacciata dei Bentivoglio; accusato di appropriazione indebita di ricchezze, vantando poteri di cui non godeva, era stato l’incarcerato a Castel Sant’Angelo. Tornato presto nelle grazie del Pontefice, aveva svolto altri compiti; ultimo, il governo di Reggio.
Le cronache dell’epoca lo dipingono come un Alcibiade: estremamente colto e raffinato ma anche vizioso, colmo di lussuria e amante delle fazioni.
Gli Scaioli lo accolgono con grandi onori e ne diventano amici. Una donna della loro casa e una degli Zoboli si fanno sue amanti. Gozzadini non nasconde le proprie preferenze e negli anni è padrino di battesimo per ogni nuovo Zoboli nato.
Poco dopo il suo arrivo in città, la pace tra Bebbi e Scaioli è infranta. Egli tollera che le proprietà dei Bebbi siano incendiate impunemente e il Conte Giambattista Bebbi si vendica uccidendo in piazza il capo famiglia degli Scaioli.
Il Gozzadini ordina il saccheggio delle case dei Bebbi e la demolizione del loro castello a Leguigno.
Il giovane Bebbi raduna 300 uomini per assaltare Reggio e impadronirsene ma deve desistere.
Nuovi tentativi di pace e altri omicidi ai danni dei Guelfi
Il più grave si consuma nell’agosto del 1515: uno dei compagni dei Bebbi, certo di una grazia ricevuta nei mesi passati da Giuliano de Medici (che era stato investito del vicariato perpetuo di Piacenza, Parma, Modena e Reggio), rientra a Reggio e viene brutalmente assassinato; soltanto 4 giorni dopo il Gozzadini esibisce una inibizione che sospende la grazia e che mai era stata notificata in precedenza.
Dopo tante trattative, gli esuli ottengono da Giuliano de Medici il permesso di rientrare a Reggio e una nuova pace è stipulata il primo maggio 1516. La città, però, non è ancora destinata alla pace.
13 aprile 1517, Giambattista Bebbi e Vincenzo Scaioli, accompagnati da amici, si incontrano casualmente di notte davanti a palazzo Zoboli. Sorge una discussione sulla precedenza. Un erculeo servo di casa Scaioli afferra da dietro il Conte, impedendogli di mettere mano alla spada. Vincenzo e i suoi lo trafiggono con più lame e si scagliano sui compagni del Bebbi, tre periscono.
Vincenzo recide il mento del nemico e col suo sangue asperge il muro di palazzo Zoboli. Entusiasta, vorrebbe radunare tutti gli amici e assaltare le case dei Bebbi. Giulio e Timoteo Zoboli lo dissuadono. Nel mentre, Paolo e Giorgio, gli unici due fratelli Bebbi superstiti su sei, recuperano le salme e si barricano nel proprio palazzo, temendo un’aggressione.
La notte seguente, Vincenzo lascia la città. I Bebbi per settimane implorano giustizia, invano. Infastidito dalla richiesta, il Governatore ordina ai Bebbi di lasciare la città.
Paolo dapprima si oppone, poi un pensiero si fa forte nella sua testa: Gozzadini deve morire, è l’unica soluzione per salvare sia la vita che l’onore dei Bebbi.
Giovanni Gozzadini è la vittima più illustre della congiura ma non la sola, le fonti non sono unanimi ma fissano il numero di morti tra 25 e 40 e contrano 22 case messe a sacco e alcune bruciate.
60 Ghibellini cercano salvezza, occupando una delle porte della città e si difendono strenuamente.
Alcuni Guelfi riescono ad arrampicarsi sui tetti vicini e a gettar fuoco, zolfo e pece all’interno della porta e gli occupanti sono costretti ad abbandonarla in fretta e scappare per le campagne.
Nei pressi del Duomo giacciono altri tre cadaveri illustri: Timoteo e Giulio Zoboli, giuristi e membri costanti nei Consigli e degli Uffici della Comunità, e l’anziano Delifeo Scaioli.
Giulio e Delifeo sono caduti per mano di parenti. Lo Zoboli dal figlio di un cugino illegittimo, privato di gran parte dell’eredità proprio dall’abilità di avvocato di Giulio; lo Scaioli vittima di Camillo, detto Scajolino, la cui madre è una Bebbi e il cui zio è Bernardino Bebbi che è indicato come responsabile delle morti di Giulio e Timoteo. Nel primo caso ha incoraggiato l’assassino a non aver pietà, nel secondo ha ucciso manu propria: trova Timoteo, vivo, nel vescovado sta chiedendo di essere condotto dal Conte Paolo, sperando in una grazia.
Bernardino non ha dubbi e lo trafigge sul posto.
Il 28 giugno 1517 è il giorno in cui l’odio covato per circa dieci anni da parte dei Bebbi e i loro seguaci si sfoga, cercando soddisfazione per i morti pianti e le ingiustizie patite. Le vittime sono i loro storici nemici, sostenitori del governo attuale, e il Gozzadini, ritenuto esserne diventato il capo.
Il Conte Paolo Bebbi e Zenone Cocconi (suocero della sorella), convocano il giorno stesso il Consiglio degli Anziani e gli Aggiunti per giustificare le proprie azioni. È riferita una lunga orazione di Paolo in cui sostiene che ad averlo spinto a tanto non è stato il desiderio di mutare governo, bensì l’avversione e l’ostilità manifestate dal Gozzadini contro la sua famiglia.
In particolare, dice a proposito del Governatore e del di lui fratello che sovente lo sostituiva: Non erano capitani della città, ma capi erano di parte, non ci governavano, ma ci procuravano ruina, et in vece della pace nutrivano la guerra, e gli nimici ostri essaltavano, e noi deprimevano.
Paolo infine mostra una lettera la quale Giovanni Gozadino governatore della città a Vicenzo Scaiola fuoruscito quasi in allegrezza della morte del mio fratello amichevolmente scrive.
Per dimostrare la natura privata del delitto, il giorno seguente i Bebbi consegnano al Consiglio i 12 sacchetti di ducati d’oro sottratti dalle casse del Governatore.
La condotta del Gozzadini è la causa principale che ha originato la congiura. A riprova di ciò si pensi a Nicolò Calcagni (da sempre schierato con gli Scaioli, che aveva avuto due parenti uccisi dai Bebbi e che era stato incaricato di abbattere il castello di Leguigno) che tende un agguato per uccidere il Governatore nel 1515. La causa è ignota ma una simile iniziativa, che lo porta a tradire la fazione a cui è sempre stato fedele e a cercare amicizia tra acerrimi nemici, può trovare motivazione solo in un grande sgarbo subito.
Le intemperanze e iniquità del Gozzadini sono confermate anche da fonti esterne. Una cronaca di Parma spiega: per haver fato un bordelo dele donne di Regio.
Più significative sono le parole scritte il 16 aprile 1571 da Francesco Guicciardini (all’epoca governatore di Modena), in cui manifesta lungimiranza: A Reggio si è fatta novità, che el lunedì di Pasqua fu morto el capo di una parte con quattro altri che erano con lui e a amazzarlo si trovò in persona el capo della altra parte; in modo tutti hanno prese le arme e messi drento li amici e i partigiani, e fattisi forti alle case loro. Non so se la cosa si poserà qui, ma quando bene si posi per ora e non se ne facci una dimostrazione grande, è uno principio che farà presto qualche altro disordine. Tutto è nato dal tristo governo che vi è.
Il Guicciardini, nuovo Governatore di Reggio, si dimostra severo e inflessibile. È sua intenzione punire sia i Bebbi per la congiura, sia Vincenzo Scaioli per l’omicidio. La sua imparzialità gli attira la malevolenza dei Ghibellini, cui è impedita la vendetta e che tenteranno di liberarsene nel 1520.
Le fonti
Le fonti narrano unanimi lo svolgimento e il perché della congiura. Vi è disaccordo sul come sia stata ordita. Il medesimo autore, figlio e nipote dei Bebbi, espone l’organizzazione in modo diverso nel 1549 nella biografia su sua zia Lucrezia e nel 1555 nella narrazione dell’intera faida.
Nel testo quasi agiografico, Lucrezia è rappresentata come una fanciulla dalla cultura immensa e una determinazione feroce. Dopo la morte del fratello, è l’unica a non piangere e, rimproverata per questo, risponde che le lacrime tolgono energia all’ira e al proposito di vendetta. È lei che a parole anima Paolo e Zenone a raccogliere uomini e armi, che lei stessa tiene celate nelle proprie casse fino al giorno dello scontro. È lei che allaccia l’armatura al Cocconi e lo motiva a non aver ripensamenti e gli ricorda che il Gozzadini ha intenzione di massacrarli il giorno seguente e dunque si tratta di essere loro assassini oggi o assassinati domani.
In attesa dell’esito, Lucrezia si ritira nella propria camera e trae un boccetto di veleno, si pone di fronte al ritratto del compianto fratello, pronta a darsi la morte, in caso di sconfitta.
Il manoscritto colloca dopo quest’evento il matrimonio di Lucrezia con Nicola Sassatelli di Imola.
Nella versione del 1555 l’organizzazione è attribuita al Conte Paolo, esasperato, e per primo si confida con Zenone Cocconi. L’idea di ammazzare il Governatore matura e si scarta l’ipotesi di ucciderlo con un colpo di schioppo mentre passa accanto alle loro case anche perché il Gozzadini ha saggiamente iniziato a percorrere un’altra strada.
Paolo convoca gli amici a Imola, nelle case del cognato Sassatelli, che risulta già sposato con Lucrezia. Alcuni aderiscono, altri si tirano indietro, ma nessuno li denuncia.
Nei discorsi ai Consigli, i Bebbi dichiarano che le loro donne, a differenza di quelle della parte opposta, non si sono mai immischiate nelle diatribe.
Qui non è espressamente detto che il Gozzadini e i Ghibellini abbiano intenzione di massacrare i Bebbi e i Guelfi il 29 giugno, seppur il timore sia manifestato, però è riferito che nel convento dei Domenicani sono trovate tre stanze adibite ad arsenale, ricolme di armi per i Ghibellini.
Qual è l’effettivo ruolo di Lucrezia Bebbi? Il nipote aveva solo voluto esaltarla nella biografia, oppure ha voluto nascondere qualcosa nel testo del 1555?
Un autore di poco successivo, Guido Panciroli, afferma che i pugnali usati dai congiurati in chiesa erano stati nascosti tra le matasse della madre dei Bebbi. Benché si parli della madre e non della sorella, rimane l’elemento di un membro femminile della famiglia che nasconde le armi.
Cesare Ancini, invece, afferma che il Cocconi fu chiamato a commettere il delitto da una sorella dei Bebbi. La logica suggerisce fosse la nuora del Cocconi ma il nome non è specificato.
Nella biografia di Lucrezia sono confluite le azioni delle parenti, oppure le ha compiute lei?
Il marito di questa Bebbi, che con i suoi soldati arriva tardi a Reggio, quando il più è già stato attuato, appartiene alla famiglia imolese di maggior prestigio e potere in quei tempi: i Sassatelli, che avevano raggiunto la supremazia scacciando dalla città i Vaini, dopo che costoro avevano assalito il loro palazzo nell’intento di massacrarli.
Lucrezia lascia la faida di Reggio e si ritrova in quella di Imola. I Vaini, infatti, cercano ancora vendetta. Già nell’ottobre del 1517 è sventato il loro tentativo di cacciare i Sassatelli; complice della mal conclusa impresa è anche il Cavalier Gozzadini, il fratello del Governatore ucciso dai Bebbi.
I Vaini trionfano nel maggio del 1522, infrangendo la pace stipulata il mese prima. La strage è grande. Nicola sale sul tetto del palazzo per un’ultima difesa e un colpo di moschetto lo abbatte.
Nell’assalto c’è ancora una volta a dar man forte il Cavaliere Gozzadini.
La morte del cognato dei Bebbi, nelle cui case si era ordito il complotto contro il Governatore di Reggio, è l’ultimo atto della sua vendetta.