Recensione a cura di Laura Pitzalis
Un libro che già dalle prime pagine mi ha coinvolta, emozionata, divertita catturandomi subito con uno stile narrativo intenso, ironico, fluido e dinamico. Davide Mosca ha scritto un romanzo che tocca il nostro animo, un romanzo che non è solo una bellissima storia d’amore ma una scatola cinese di stati sensoriali ed emozionali, di paesaggi aspri, di vivi che sembrano morti e di morti che “non muoiono mai”, di delusioni e speranze, di silenzi e chiacchiere, di balli e malinconia … che non possono lasciarti insensibile.
Leggendo il libro ci si accorge dell’impronta di autori del passato che hanno vissuto o hanno soggiornato per vari motivi nelle Langhe, come Pavese e Fenoglio, un’impronta molto evidente non solo nella scelta dei nomi di alcuni protagonisti, Beppe, Cesare, Acciuga, Italo, ma anche in alcuni modi di dire e in alcune descrizioni dei luoghi, come se Mosca volesse rendere palese, quasi comunicare al lettore quali siano state le sue “fonti”. Per questo introduce nel testo dei termini che appartengono al dialetto e spesso costruisce le frasi con una forma e una sintassi tipiche dialettali.
… “Dai cantiamo una volta” mi disse prendendomi per mano
Quel modo di dire tutto nostro gli era rimasto incollato alla lingua durante la militanza nei partigiani … Era stato lui a svelarmi che era un modo di dire solo piemontese. Beviamo una volta, cantiamo una volta, mangiamo una volta …
L’ambientazione temporale del romanzo è 1947, l’immediato dopoguerra, quella locale le Langhe, un territorio del basso Piemonte che per la sua particolarità geografica risulta essere un mondo un po’ chiuso con le sue colline poco collegate al resto d’Italia e per questo appartate ma anche un po’ fatate. Questo quasi isolamento ha fatto sì che chi vive qui abbia una visione del mondo particolare che li porta a non voler apparire, a rinchiudersi a essere un po’ rudi. Questa particolare mentalità è ben evidente nei personaggi del romanzo, dove spicca una visione della vita mai adulatrice , mai facile ma sempre un po’ amara, spigolosa anche in presenza di un forte sarcasmo che troviamo già nelle prime pagine del libro, quando Virginia incontra il forestiero, che ci da subito un’idea dei personaggi che andremo a conoscere.
… Si avviò con il suo passo caracollante. Dopo una manciata di metri, si voltò.
“Ma tu come mai sai tante cose dei Costamagna?”
“Lavoro per loro”
“E che lavoro fai?”
“La figlia.”
La famiglia dei Costamagna, una famiglia benestante, proprietaria terriera, che dava da vivere a generazioni di braccianti, contadini, mezzadri, si trova dopo la guerra ad aver perso quasi tutto,a dover vendere parte delle loro terre per sopravvivere e lavorare sodo per far fruttare quelle rimaste. Una sola cascina era rimasta loro la “Pia”
Una famiglia che ha perso i beni, il nome, (… prima eravamo i Costamagna … Adesso eravamo soltanto “quelli della Pia”), i figli, Beppe, morto partigiano, Nuto, in guerra.
Una famiglia in cui la parte maschile, fiaccata dalla guerra e dalle proprie delusioni, è rassegnata e si tormenta nel dolore come il padre, uomo avvilito e sconfitto che tradito dal fascismo sembra voler rinunciare alla vita, e nel risentimento come Sandro il fratello maggiore dalla mentalità patriarcale.
“A casa c’erano tre donne vive, la Duchessa, mia madre e io, e quattro maschi, mio padre, mio fratello Sandro, mio fratello Cesare e io, che contavo come un maschio perché lavoravo come un uomo, o come un uomo avrebbe dovuto lavorare, se non altro per cercare di tenere in piedi quello che si poteva tenere in piedi della cascina. I nostri uomini se li era portati via la guerra, i vivi più dei morti”
A non arrendersi a questo stato di cose è la parte femminile che in qualche modo o positivamente, Virginia e sua madre, o negativamente, l’insopportabile nonna Duchessa così chiamata per le sue origini nobili, lottano per riscattarsi anche se per motivi diversi: la Duchessa per mantenere un certo status perché vuole “morire da signora”; Virginia e la madre per salvare la cascina e tutto quello che resta.
Insuperabile Davide Mosca nella caratterizzazione della protagonista, Virginia detta Ginia: una ragazza lucida nonostante la giovane età, che ha perfettamente chiaro come potrebbe salvare le terre e le proprietà della famiglia. Una ragazza che lavora sodo ma anche un po’ ribelle, una ragazza chiacchierona che percorre le Langhe avanti e indietro prima per andare a scuola, che erano sempre distanti, poi con la gerla sulla schiena per consegnare i prodotti della cascina. “Gambeinspalla” così la chiamavano. Incapace di non sciupare un vestito, sempre ad arrampicarsi sugli alberi, a lottare con i maschi, a correre insieme ai cani.
“Io a piedi avevo fatto il giro del mondo, eppure non mi ero mai allontanata da casa per più di una giornata intera”.
Questo fino a quando non incontra Italo, il “forestiero” e allora entra in scena l’Amore e le idee di Ginia vengono un po’ scombinate perché si lascia travolgere da questo sentimento in modo così passionale da perdere quasi il controllo, un sentimento fatto di fisicità e congiungimento, d’impazienza e di amore celato tra boschi e colline che guardano e proteggono. Un amore che la porterà a fare delle scelte che le indurranno un grande senso di colpa.
Ci sono passi molto belli in cui Mosca, raccontandoci questa relazione, mette in evidenza l’incontro-scontro tra il mondo contadino di Virginia, un mondo impregnato nella superstizione religiosa che rasenta quasi la magia, in cui c’è una sapienza ancestrale nell’affrontare le cose della vita, e il mondo culturale di Italo che parla l’italiano e non il dialetto, che viaggia, che studia, recita poesie e racconta storie dei tempi passati per capire quelli presenti, che ha un altro modo d’intendere la vita, ha altre inquietudini e altre aspettative.
«Lo sai, Italo? Non ho mai parlato tanto in italiano come da quando sto con te. Sì, a scuola ce lo hanno insegnato, ma fuori dalla classe chi l’ha mai adoperato? E invece adesso parlo in italiano con te, e a volte penso in italiano, ci sogno perfino. In italiano penso altri pensieri …»
Incantevole anche il personaggio della madre di Virginia, una donna apparentemente sottomessa, che sta sempre al suo posto, non da fastidio, ma con una profonda saggezza anche se nascosta dietro una remissività che la rende superficiale agli occhi degli altri. In apparenza dice sempre sì ma spesso si svincola e riesce a salvare sia l’indipendenza della figlia sia l’economia dissestata della famiglia.
Un romanzo che parla d’amore, di riscatto, di speranza, di pazienza ma anche di libertà che si esprime, soprattutto per le donne di quel periodo, con il ballo. E il ballo è il motivo conduttore del racconto, il modo cha ha Virginia e le ragazze dell’epoca di relazionarsi con il proprio corpo, di comunicare la propria indipendenza, perché era un modo consentito d’esprimere la loro carica vitale o passionale o giocosa o erotica.
“Quando balli o cammini nessuno può legarti, Ginia. Non serve essere una tigre, impara dai gatti che non ruggiscono, eppure non si lasciano mai domare”.
Che dire ancora? Un libro assolutamente da leggere se volete viaggiare in una terra bizzarra e incantata, immergervi della sua semplicità primitiva e ostinata, scoprire la vera essenza dell’amore, lasciarvi coinvolgere nel ballo e volare dove fischia il vento della libertà con la sua musica di passione e di riscossa.
Trama
Nell’Alta Langa erano potenti e temuti, i Costamagna. Quando passava uno di loro, la gente mormorava e si toglieva il cappello. Poi è arrivata la guerra, che ha portato via troppi uomini e stravolto ogni equilibrio. Adesso i padroni di un tempo devono vendere le loro terre per far quadrare i conti, e rompersi la schiena in quelle rimaste. Virginia, coi suoi diciannove anni e la sua sfacciata vitalità, è la più giovane della famiglia, l’ultima dei Costamagna, e non ha alcuna paura di faticare per costruirsi un futuro diverso.
Un giorno, tra i campi spunta uno sconosciuto. È un ex partigiano e ha percorso mille chilometri a piedi, dice, dal nord della Francia, soltanto per restituire un medaglione d’oro ai genitori del compagno d’armi che gliel’ha affidato in punto di morte. Avrebbe potuto venderlo e con quei soldi imbarcarsi per l’America, dimenticare l’orrore, ma ha preferito onorare quel debito morale. Accolto dalla Duchessa, l’anziana donna che tiranneggia sui destini e sugli affari sempre più incerti dei Costamagna, il ragazzo viene messo alla porta: vadano a quel paese lui, il medaglione e anche la memoria di quel nipote traditore che ha combattuto al fianco dei ‘rossi’. E così se ne va con la coda tra le gambe, ma qualche sera più tardi ricompare in una cascina vicina, con una chitarra in mano e una voglia di suonare che fanno eco alla splendida irrequietezza di Virginia. Con una formidabile sensibilità ai moti dell’animo umano, Davide Mosca ha scritto un romanzo di parole precise e vere, di paesaggi sanguigni, di uomini che escono smarriti dalla guerra e di donne che hanno cuore e gambe per inseguire il loro destino.