«Sul cappello sul cappello che noi portiamo, c’è una lunga, c’è una lunga penna nera».
Il cappello piumato degli alpini è, nsieme a quello dei bersaglieri, tra i più famosi copricapi dell’esercito italiano, in uso fin dalla costituzione del corpo degli alpini, nel 1872.
Un berretto caratterizzato, appunto, da una penna nera lunga circa 25-30 cm, inserita sul lato sinistro del cappello, e leggermente inclinata all’indietro.
Che poi, la penna non è sempre nera. Lo è per i soldati e i sottufficiali, visto che è di corvo. Ma per gli ufficiali inferiori (da sottotenente a capitano), diventa marrone, di aquila. E per quelli superiori (da maggiore in su) è d’oca, quindi è bianca.
Ma da dove nasce questo tipo di cappello?
Dal teatro e, precisamente, da una tragedia verdiana: “Ernani” in cui il protagonista, Ernani, appunto, (in realtà dietro questo nome si nasconde Don Giovanni d’Aragona) è un giovane pastore ribelle che si oppone alla tirannia spagnola indossando un cappello tondo e con la piuma, ovvero il cosiddetto berretto «alla calabrese» o «all’Ernani»
L’autore del libretto, Francesco Maria Piave, che si era ispirato all’omonimo dramma scritto da Victor Hugo, descriveva il suo eroe con un mantello ed un grande cappello da montanaro.
Il costumista della Fenice di Venezia, teatro in cui andò in scena la prima dell’opera verdiana, partendo dalla descrizione, disegnò un cappello rotondo, con ampie falde, sormontato da una grande piuma.
Il protagonista dell’Ernani divenne talmente un simbolo di patriottismo che il suo ritratto appariva nelle vetrine dei librai di Venezia accanto a quelli di Giuseppe Verdi e di Francesco Maria Piave e i cappellai cominciarono a produre quel tipo di berretto e a venderlo con profitto, sancendo così il copricapo alla Ernani come il cappello dei patrioti di Venezia, specialmente durante l’insurrezione del 1848.
Da Venezia l’uso si diffuse anche nelle altre città che non sopportavano più il dominio austriaco, che adottarono quel costume a divisa patriottica. A Milano durante le Cinque Giornate molti combattenti lo avevano in testa e lo agitavano in segno di sfida agli austriaci.
Un cappello da un significato a un certo punto assai “scomodo”, tanto che il 15 febbraio 1848 il capo della polizia milanese, austriaco come tutta la Lombardia, ne vietò l’uso in pubblico perché troppo «libertario».
Nel frattempo il cappello cambia nome, e invece che all’Ernani si preferiva chiamarlo “alla calabrese”, in quanto simile a quello così popolare in quella regione dai briganti ottocenteschi.
Alla calabrese o alla Ernani, quel cappello fu talmente identificato con le istanze di libertà e indipendenza che la famosa pasionaria risorgimentale Cristina Belgiojoso Trivulzio si fece ritrarre con un cappello del genere.
Nel 1949, con l’entrata dell’Italia nella Nato e la necessità di uniformare le divise, si pensò di adottare un berretto color kaki, senza penna e con fregio di specialità, chiamato norvegese e di sfoggiare il cappello alpino soltanto durante le parate e le cerimonie in alta uniforme.
Ma lla tenace resistenza degli alpini, a cominciare dagli ufficiali, in difesa dell’amato cappello con la penna costrinse i comandi a declassare il berretto all’uso in altre mansioni.
Insomma, ancora una volta, e come spesso è accaduto, Giuseppe Verdi con una sua opera divenne un simbolo di libertà, perfino in termini di abbigliamento.