Recensione a cura di Roberto Orsi
“Apparve un cavallo pallido: il nome del suo cavaliere era Morte, e l’Inferno lo seguiva, e gli fu dato il potere sulle quattro parti della terra di uccidere con la spada, con la fame e con la peste…”
Con un passo dell’Apocalisse di Giovanni si apre il romanzo di Ottavia Niccoli “Morte al filatoio” edito da Vallecchi Firenze. Don Tomasso, dell’Ospizio di San Biagio che offre rifugio a viandanti, miserabili e pellegrini,, quando si apre lo scenario del romanzo è alle prese proprio con la lettura di questi passaggi. Segnali funesti di iraconda volontà divina come quella che si sta per scatenare sulla città di Bologna.
Le vicende raccontate si svolgono nell’arco di pochi giorni, nel mese di novembre del 1592. Don Tomasso si trova a indagare su un paio di episodi misteriosi avvenuti a distanza di poco tempo uno dall’altro. Una giovane donna, che risponde al nome di Violante, viene accusata in modo anonimo tramite un libello appeso alla porta di casa, di essere una poco di buono e aver avvelenato il marito per le sue losche trame. Innocenzo Martini, notaio del Torrone, dove si amministrava la giustizia della città per conto del Legato pontificio, incarica l’amico di lunga data Tomasso di indagare su quanto stia avvenendo.
Nel frattempo, una giovane ragazza, impiegata al filatoio di tal Pellegrino Righi, viene ritrovata senza vita e con evidenti segni di violenza sessuale nel canale Fiaccalcollo.
Don Tomasso, pur non essendo ufficialmente intitolato allo svolgimento delle indagini, non si tira indietro. La sua “fama di rigida onestà e l’asprezza severa della voce del tratto” lo precedono. La continua ricerca di Verità e Giustizia non lo abbandona mai. Aiutato dal giovane Gian Andrea, un ospite di San Biagio, Don Tomasso si mette sulle tracce degli assassini.
“Finalmente, o Cristo, sole di giustizia, si dissipino le tenebre della mente, torni lo splendore della virtù, poiché tu riporti la luce del giorno sulla terra…”
Le due indagini scorrono parallele nel contesto della città di Bologna che viene raccontata dall’autrice, non tanto dal punto di vista storico e artistico, quanto dal punto di vista socioeconomico. I protagonisti sono personaggi comuni, del popolo: dai miserabili affamati per le strade, vessati da una carestia senza tregua, ai commercianti di stoffe e gli impiegati dei filatoi. Non troviamo personaggi realmente esistiti, protagonisti delle vicende, ma solo qualche fugace apparizione e menzione di accadimenti storici, come il Concilio di Trento di qualche anno prima, che fanno da cornice al romanzo.
“Era convinto, e disposto ad accettare, che il misero e l’indigente fossero parte della volontà divina, ma l’iniquità della violenza umana di certo non lo era, e doveva essere combattuta e punita.”
Il cavaliere della Morte galoppa nelle strade di Bologna, già colpita dalla carestia che mette in ginocchio parte della popolazione. La violenza umana si aggiunge a questo quadro già di per sé complicato, generando ancora morte e sofferenza.
I ragionamenti di Don Tomasso, aiutato da Gian Andrea che, nonostante la giovane età, ha sempre ottime intuizioni, scavano negli istinti più subdoli dell’uomo. Rendere giustizia alle vittime diventa il primo pensiero per Tomasso, deciso più che mai a fare luce nel buio.
“Il fatto di essere doctor utriusque iuris gli serviva forse ora a qualcosa? Lo aiutava a vedere più da vicino la Giustizia, questa donna bellissima con gli occhi splendenti, che regge con una mano le bilance, con l’altra la spada?”
Un giallo storico breve che si legge molto piacevolmente fino alla soluzione finale. L’autrice inserisce alcuni riferimenti agli usi e tradizioni del passato che si fanno apprezzare per completezza d’informazione: dai verbali di un interrogatorio, alle prime autopsie sui cadaveri, ai legami matrimoniali e alla redazione di atti notarili.
L’autrice grazie alla sua profonda conoscenza del periodo, pur lasciando sullo sfondo gli avvenimenti di Macrostoria, è abile nel ricostruire un ambiente e un’atmosfera del passato attraverso l’utilizzo ben dosato di termini desueti. La narrazione è fluida e sempre incentrata sul punto di vista di Don Tomasso, del quale il lettore apprezza la tenacia e la ferma volontà di valutare le situazioni con evidenze oggettive.
Trapela, inoltre, tra le pagine del romanzo, un senso di incompletezza per l’animo di Don Tomasso. Qualcosa dal suo passato lo tormenta e l’autrice lo svela a poco a poco, lasciando indizi sulla sua vita prima che la dedicasse completamente a Dio. Un’abile mossa che potrebbe lasciare lo spazio per un nuovo romanzo con lo stesso protagonista.
La risoluzione del caso mi è parsa un pochino debole e affrettata, ma ciò non toglie il piacere di una lettura adatta a chi cerca un giallo storico leggero e non troppo impegnativo dal punto di vista nozionistico.
Trama
Bologna, 9 novembre 1592: don Tomasso, che dirige l’ospizio di San Biagio, viene coinvolto mentre è al Tribunale del Torrone in una denuncia per diffamazione voluta da Violante, una donna che un libello anonimo accusa di aver avvelenato il marito. Il notaio Martini, inquirente amico del prete, gli chiede in via non ufficiale di prendere informazioni da don Lucio, il sacerdote che ha proceduto al funerale e che forse è stato anche l’amante della donna. Nel frattempo, don Tomasso apprende da due ragazzini rifugiatisi all’ospizio, Ettore e Gian Andrea, che il primo ha appena visto il cadavere di una giovane donna nei sotterranei del filatoio di tal Righi. Il corpo, gettato nel canale, verrà infatti ritrovato di lì a poco. La morta risulta essere una lavorante del Righi, Caterina Pancaldi, e l’esame autoptico dichiara che ha perso da poco la verginità. Partono quindi tre processi: quello per il libello, quello per avvelenamento del marito di Violante e quello per “la putta” trovata nel canale. Mentre si svolgono gli interrogatori, don Tomasso aiutato da Gian Andrea prosegue nella ricerca di ipotesi e indizi per incastrare l’omicida.