Recensione a cura di Luigia Amico
Provate ad immaginare una tazza di cioccolata calda, quasi bollente, il vapore che sprigiona la dolce bevanda sembra solleticarvi il naso e l’aroma che si diffonde stuzzica gradevolmente le vostre papille gustative. Squisita vero? Il sogno di grandi e piccini, oggi giorno alla portata di tutti, eppure il desiderio di quella cioccolata è diventato quasi tormento per una bambina, anzi più che tormento direi “forza di sopravvivenza”. La bimba in questione è la piccola Trudi Birger, ebrea deportata nel campo di concentramento di Stutthof in Polonia.
“Inventavo un paese gioioso che chiamavo Terra di Israele, dove avremmo vissuto agiatamente e al sicuro. Immaginavo tutto quello che avremmo mangiato, succulenti frutti e gustosi panini col burro. Soprattutto ero posseduta dal desiderio di bere una tazza di cioccolata calda.”
“Ho sognato la cioccolata per anni” è un libro autobiografico in cui Trudi riporta con chiarezza e senza mezzi termini le atrocità subite e quelle cui ha dovuto assistere passivamente durante l’internamento. Come tutti i romanzi che trattano il periodo dell’olocausto anche questo non è scevro da efferatezza e crudeltà ma credo non esista un altro modo per affrontare l’argomento; a cosa serve indorare la pillola se i fatti accaduti sono realmente al limite della sopportazione psicologica umana?
Il libro può essere suddiviso in tre parti: prima, durante, dopo.
Il prima il lettore potrà viverlo attraverso dei flashback in cui Trudi racconta di sé bambina, della sua infanzia. Nata in una famiglia benestante, vive con spensieratezza le sue giornate divisa tra scuola, gite e tè danzanti; è una bimba come tante si incontrano, amata e coccolata in casa, possiede quella ingenuità fanciullesca che funge quasi da scudo quando le idee nazionalsocialiste iniziano a radicarsi nelle menti malate degli uomini.
All’improvviso qualcosa cambia, nell’aria si respira tensione, Trudi e la sua famiglia sono costretti ad abbandonare tutto, casa, abiti, ricordi, sogni, desideri… la destinazione? Il ghetto di Kovno, in Lituania. È il punto di non ritorno, l’inizio della fine. Se fino a pochi giorni prima la protagonista del romanzo era avvolta dal calore della sua abitazione, ora si vedrà costretta a vivere in pochi metri spogli di qualsiasi comodità, anche la più basilare e dovrà dire addio alla sua ingenuità di bambina.
“Qualcuno aveva gettato secchiate di pittura rossa anche sulle pareti interne. Mi avvicinai e posai un dito su una macchia. Capii subito che si trattava di sangue umano.”
Iniziano per lei e i suoi cari i lavori forzati, sono costretti ad assistere a scene al limite della follia umana: quale essere immondo potrebbe divertirsi ad un uccidere una persona solo per il gusto di vedere impazzire di dolore la madre, costretta ad assistere alla scena? Eppure in quei luoghi dimenticati da Dio e isolati dal resto della civiltà è successo anche questo abominio.
“È terribile quando il nostro destino dipende dal capriccio di un’unica persona…”
Trudi crede di aver assistito alle peggiori nefandezze nel ghetto fino a quando non sarà trasferita con sua madre nel campo di concentramento di Sthuttoff. Purtroppo lì i suoi occhi dovranno assistere ad episodi raccapriccianti, ma nonostante ciò la sua voglia di sopravvivere anzi di vivere è più forte di qualsiasi orrore perpetrato ai danni dei prigionieri.
Si aggrappa con le unghie e con i denti al suo sogno di una vita libera per se stessa e per sua madre, nonostante la sua giovane età si farà carico dei lavori più pesanti e aberranti per poter in qualche modo alleviare le sofferenze di quella madre che tanto ha dovuto soffrire e che sembra spegnersi giorno dopo giorno come una candela. Sarà proprio l’amore profondo e incondizionato tra madre e figlia a dare la forza a Trudi di affrontare le infinite giornate da deportata con un sorriso, un falso sorriso che dovrebbe in qualche modo infondere coraggio nel genitore.
Non c’è un solo passaggio, una sola parola in tutto il romanzo che possa far credere a un momento di rassegnazione della protagonista, neanche quando si ritroverà davanti quei forni che potrebbero ridurre in cenere lei stessa, i suoi sogni e le sue speranze.
Trudi e sua madre torneranno vive dall’inferno e il percorso di recupero sarà forse anche più duro, le incognite sono molte e la paura sembra ancora attanagliare le viscere, ma dopo che hai affrontato il diavolo in persona puoi solo rinascere ed è quello che farà Trudi non senza difficoltà. Si dedicherà ad opere di beneficienza indirizzate soprattutto ai fabbisogni dei bambini, forse perché la sua infanzia le è stata strappata da uomini senza scrupoli e senza umanità.
Non è stata una lettura semplice, sono presenti dei passaggi che lasciano letteralmente il lettore senza fiato, scene da rivoltare lo stomaco, ma quello che colpisce maggiormente è la semplicità e la naturalezza con cui l’autrice racconta la sua vita, non c’è aggiunta di dettagli inutili, non c’è ombra di vittimismo tra quelle parole agghiaccianti, Trudi vuole semplicemente raccontare non essere compatita.
Nonostante siano trascorsi molti anni dalla sua deportazione, sembra quasi che i suoi ricordi non abbiano subito il trascorrere del tempo, sono lì ben stampati nella sua mente e nei suoi ricordi, difficile, in effetti, cancellare anche solo un minuto del dolore che ha dovuto sopportare.
Avvicinarsi a questo romanzo significa entrare in contatto con una realtà purtroppo cruda e violenta, forse come mai ce ne sono state; Trudi nella sua semplicità di esposizione dei fatti coinvolge il lettore in una narrazione potente, si resta avvinti dalle emozioni che l’autrice riesce a trasmettere attraverso quelle parole pesanti come il piombo e che dovrebbero pesare come macigni sulle coscienze di tutti noi.
Trama
La storia di una bambina che, dai té danzanti di Francoforte, si ritrova rinchiusa nel ghetto di Kosvo prima di finire nel campo di concentramento di Stutthof. Una storia vera, di affetto e devozione. La prova d’amore di una figlia ragazzina, che nella grande tragedia dell’olocausto rifiuta di salvarsi per non abbandonare la madre, perché sa che solo da quel legame forte e profondo, indispensabile per entrambe, potrà attingere la forza per continuare a sperare anche quando, nuda e rasata, si vedrà spinta verso la bocca di un forno crematorio.