Recensione a cura di Donatella Palli
Nella notte tra il primo e il due aprile del 1944 un terribile bombardamento alleato semina morti e panico tra la popolazione di Varese, città che, fino ad allora, era stata risparmiata dalle incursioni aeree per la sua collocazione periferica e molto vicina alla neutrale Svizzera.
Gli abitanti che avevano visto passare molte volte i bombardieri diretti a Milano, non si aspettavano l’incursione e vengono sorpresi nei loro letti, terrorizzati.
Ci informa l’autore che: “Pur ispirandosi a vicende storiche e alla memoria di chi non ha voluto dimenticare, (Bignotti intende con questo ringraziare i suoi nonni) questo romanzo è opera di fantasia”. Rifacendoci al titolo veniamo a sapere che i quindici secondi sono la durata del suono delle sirene antiaeree prima che si silenzino e poi ripartano per altri quindici fino alla fine della minaccia.
Il Palace Hotel, albergo di lusso situato sulla collina Campigli, trasformato durante la guerra in nosocomio, si trova troppo vicino alla fabbrica di aerei militari AerMacchi, il vero obiettivo del bombardamento. Per ironia della sorte e anche per l’imprecisione dei bombardieri la fabbrica rimane in piedi mentre, tutt’intorno, regnano devastazione e morte.
Il romanzo fin da subito assume una dimensione corale e attraverso le reazioni dei sopravvissuti – paura, angoscia, sconforto, dubbio – descrive la loro difficile lotta per la sopravvivenza tentando di trovare, attraverso questo caleidoscopio di emozioni, una interpretazione, una motivazione alle tante perdite umane.
Il grande tema del romanzo è la difficile distinzione tra il bene e il male. “Siamo i buoni o i cattivi?” domanda la piccola Emma discutendo con due suoi compagni di classe.
Sono i bambini, i puri, a comprendere e adeguarsi per primi alla drammatica situazione, assistendo un ferito, come fanno Santina o Emma, restando al capezzale della nonna che non può muoversi da casa o come il piccolo Alberto che, disilluso , getta dalla finestra il modellino di aereo ricordo di suo padre aviatore. Aveva sognato di diventare pilota di caccia come lui fino a quella notte “quando si rese conto che non c’era niente d’ammirevole nello sganciare bombe dall’alto(..) i veri eroi erano coloro che da terra con gli occhi gonfi e lucidi pregavano e piangevano per avere salva la vita propria , di un amico o di un parente.”
Per gli altri, gli adulti, è tutto più difficile: c’è chi ha un ruolo “istituzionale” come Carlo reduce della prima guerra mondiale che fa parte dell’U.N.P.A (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e deve occuparsi di proteggere i cittadini nei rifugi. C’è Rebecca, bella ragazza che vorrebbe frequentare Giuseppe ma si deve prendere cura dei due nipoti orfani.
Ci sono Giuseppe e Ottavio , infermieri che rubano, per conto dei partigiani, armi e viveri all’ospedale e don Paolino che li copre . C’è Ida, la maestra, che conserva in un baule tutte le letterine dei suoi alunni.
Ci sono i carcerati Franco e Alberico, operai in attesa di essere spediti in Germania per aver partecipato agli scioperi contro il regime fascista che, approfittando dell’incendio nel carcere, si danno alla fuga. C’è poi il tenente Ubaldo De Vittori della Repubblica sociale italiana, ottuso e violento.
Nessuno comunque è esente da responsabilità e incertezze sul da farsi. Gli stessi partigiani hanno un comportamento ambiguo e opportunista, e la fanno da padroni nelle montagne della Valcuvia.
Certo non può mancare “il matto” il Luserta, che proprio matto non è e gira per la città citando i nomi dei caduti e affermando che attaccheranno di nuovo. Infatti gli alleati ci riproveranno il 30 aprile.
Un po’ meno sotto i riflettori sono i fascisti e i tedeschi che l’autore descrive superficialmente. In effetti si è scritto molto sulle loro nefandezze e non c’è molto da aggiungere.
Carlo fra tutte queste schegge di umanità impazzite, attratto dalla giovane Rebecca, ferito e amareggiato, è colui che comincia a ragionare con la propria testa e la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana vacilla:
“Era veramente possibile che con un obiettivo strategico come l’AerMacchi, la città non fosse assolutamente preparata ad un vero attacco ?”
Da qui si fa sempre più strada in lui la consapevolezza della corresponsabilità.
“Resta il fatto che se per colpire una fabbrica di aerei devi uccidere degli innocenti, non sei diverso da chi stai combattendo ”
Confutato dal suo amico Giulio:
“Non riesci in alcun modo a capire, eh? Intendo dire che se bombardare una città per impedire i rifornimenti al fronte, limitando la produzione di armi o anche solo demoralizzando la popolazione per farla rivoltare o reagire, può fare finire prima questa schifosa guerra, allora è giusto così: che muoiano cento civili per salvare mille soldati!”
A distanza di molti anni dalla fine della seconda guerra mondiale credo che sia mutata l’ottica con cui alcuni autori come Bignotti e altri guardano alle responsabilità del conflitto e alla resistenza stessa.
Pur rimanendo la guerra di Liberazione dal Nazifascismo, un aspetto molto importante della nostra storia, si rilevano anche gli errori e le sopraffazioni che avvennero in nome della libertà, smitizzando i fatti.
Bignotti analizza l’essere umano e le sue reazioni davanti alla perdita di ogni sicurezza, perché la guerra infrange il consueto ordine che regola la vita civile e fa proprie le parole di Oriana Fallaci:
“La natura umana è così inesplicabile , ciò che divide il bene dal male è un filo talmente sottile, talmente invisibile, a volte, quel filo si spezza tra le mani mischiando il bene e il male in un mistero che ti smarrisce. In quel mistero , non osi più giudicare un uomo.”
L’autore, appassionato di storia locale, ha raccolto le testimonianze di coloro che vissero quel periodo buio in cui si volevano semplicemente pane, pace e libertà , al di là delle colorazioni politiche.
Il quadro che ne esce è quello di un’umanità ferita e disillusa ma non vinta che si arrabatta per sopravvivere e deve essere fiduciosa nelle nuove generazioni.
Trama
Mi chiamo Carlo, ho cinquant’anni e sono incazzato e insofferente con il mondo. E, come se non bastasse, mi sono ritrovato per ben due volte, inerme, sotto le bombe sganciate su Varese. Prima dagli inglesi e poi dagli americani. Il loro obiettivo? L’Aermacchi, la fabbrica di caccia situata nel centro città, a pochi passi dal Palace Grand Hotel, trasformato da qualche anno in ospedale militare. Ospedale dove lavorano Giuseppe, Ottavio e don Paolino, i quali, nella notte del primo bombardamento, prestano soccorso a Ettore. Insieme alla piccola Santina e a Rebecca. È di lei, di Rebecca, che, nei giorni spaventosi e grigi della guerra, mi sono innamorato di un amore puro e disilluso, che però mi riempie di felicità e speranza.