Recensione a cura di Lucia Maria Collerone
Il romanzo è l’ultimo di questa prolifica scrittrice ed è stato tra i 5 finalisti del Premio Strega 2021. Un romanzo breve che vuole essere un tirare le somme, per l’autrice, sulla propria esistenza, un excursus nella sua storia e nella Storia che ha attraversato non senza grandi sofferenze e altrettanto grandi esperienze, come quelle dell’odio senza umanità e dell’amore per sempre.
Una narrazione asciutta, quasi asettica, come dietro ad uno schermo per essere oggettiva, per narrare senza filtri e arrivare dritta al cuore dei lettori, ma anche per proteggersi, prendere le distanze e non affogare nel mare malinconico di ricordi truci o estremamente felici.
Si attraversa la vita dell’autrice, tenuti per mano da lei, che mostra ciò che ha vissuto senza veli, perché la verità non venga mitigata o nascosta, perché si sappia che prima dell’estrema sofferenza, nella culla della vita familiare, la piccola Ditke era felice e che, dopo la contaminazione del male, essere felici era una chimera, un bisogno irrealizzabile, che invece diventa realtà perché l’amore vince sempre e sgorga dal fuoco dell’inferno, addomesticandolo.
Il titolo del romanzo è un riassunto conciso della narrazione. La mamma di Ditke stava facendo il pane quando i nazisti vengono a prenderli. Il pane simbolo di pace, famiglia, amore e prosperità, così difficile da preparare in quel momento, viene abbandonato e perso così come il bello e il buono della vita. Il pane perduto, così come lo definisce la madre disperata, rimane come un vuoto, un marchio nella vita lunghissima, una perdita irrisolta, che nessun altro bene ha potuto pienamente colmare. Indica lo strappo, la rottura e l’inizio dell’agonia.
Il suo continuo rivolgersi a quel Dio che sembra lontano e irraggiungibile, il “Grande silenzio”, incapace di preservare l’uomo dal male, con un progetto che l’umanità non riesce a vedere perché percorre vie in cui il Dio Amore sembra essere risucchiato da una forza violenta e contrapposta, vincitrice.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso ma l’Inferno l’ho conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo. Perché [Dio] non hai spezzato quel dito?
Ma è a Dio che l’autrice ottantottenne, prossima alla conclusione del suo percorso di vita, si rivolge per ottenere tempo ancora su questa terra per continuare la sua missione di divulgatrice tra la gioventù, perché sappia, non dimentichi, sia memore e riconosca i segnali di ciò che potrebbe trasformarsi di nuovo nel mostro che trangugiò la sua infanzia felice e sputò fuori la sua vita masticata, consunta, vilipesa. Un’umanità che non ha vissuto, ma che abbraccia, comprende, riconosce, non cancella e si pone a baluardo. Lei che ha vissuto l’insofferenza di chi non aveva conosciuto il suo tormento, sente il bisogno di creare conoscenza, di stampare nell’anima dei giovani il ricordo dell’orrore perché mai più niente del genere accada.
La sua esistenza dopo il grande male ha trovato una ragione di vita, nonostante le delusioni cocenti. La sua indomita ricerca le ha concesso di incontrare l’amore lenitivo che ha sanato le sue ferite e le ha reso la vita di dopo, meravigliosa, unica, ancora vivibile.
C’è una sorta di sbilanciamento tra lo spazio narrativo dedicato all’esperienza della Shoah rispetto a quello dedicato al periodo precedente ad esso e al periodo successivo, liquidato in poche pagine per lasciare spazio all’urgenza del presente: la necessità di mettere in guardia contro i nazionalismi e i rigurgiti di intolleranza attuali.
La prosa è asciutta, essenziale, una lingua diretta che taglia. La narrazione in terza persona della prima parte che racconta l’infanzia di Ditke, si trasforma all’improvviso in un io narrante, quando inizia la deportazione. Quell’io racconta su di sé il dolore fisico e la sofferenza dell’anima e sembra di essere proprio quell’essere umano cancellato e vilipeso, che vive di piccoli miracoli, come quello di essere di nuovo chiamata con un nome e non rinchiusa in un numero.
E lì, in quel castello a pochi chilometri di cammino dal campo, mi capitò il secondo miracolo: il cuoco, al quale dovevo portare le patate sbucciate, mi aveva chiesto: “COME TI CHIAMI”; qualcosa di incredibile per me, numero 11152…E se non era lui Iddio, chi era? Mi sentivo rinata. Avevo un nome esistevo.
Lo stesso io che cerca risposte, si dibatte, cerca di uscire dalla melma del dolore di trovare una ragione per vivere oltre l’orrore, che rifiuta di toccare un’arma e di alzarla contro un altro essere umano, anche solo per difendere un’idea di patria che non può sovrapporsi a quella di rispetto per la vita umana.
La parola patria non l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola “patria”, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra” e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.”
La lettera a Dio, posta alla fine del romanzo, è per l’autrice un dare voce alla bambina scalza che volava nei cieli d’Ungheria, felice e priva di paura, ma colma di dubbi e stupita davanti a un Dio che non ascolta, non salva. Commovente la paura di perdere la memoria e di non poter ancora aprire le menti, narrare per non obliare, esperienza che ogni persona anziana sicuramente prova. Se nessuno ricorda, niente esiste e dimenticare, per Edith Bruck, significa rischiare di rivivere l’invivibile.
Editore: La nave di Teseo (21 gennaio 2021)
Copertina flessibile: 128 pagine
ISBN-10: 8834604512
ISBN-13: 978-8834604519
Link di acquisto cartaceo: Il pane perduto
Link di acquisto ebook: Il pane perduto
Trama
Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.