Interviste TSD Personaggi storici

Interviste con la Storia: Dante Alighieri

Torna la nostra rubrica delle Interviste impossibili con grandi personaggi del passato. E quest’anno (2021) come non ricordare il Sommo Poeta di cui si ricordano i 700 anni dalla scomparsa? Francesco Fioretti, dantista e scrittore, si è messo sulle sue tracce e leggete cosa è successo…

Intervista a cura di Francesco Fioretti

L’ho incontrato per caso l’altro giorno.
Ero a Milano di passaggio, non molto distante dalla stazione centrale, e l’ho riconosciuto per miracolo.
È stato solo perché anni fa, a Ravenna, ho assistito alla ricostruzione scientifica del suo vero volto, da parte del professor Gruppioni, sulla base del calco del cranio che aveva realizzato il dottor Fabio Frassetto dopo l’ultima riesumazione delle sue ossa, esattamente un secolo fa, nel 1921. Era un volto sostanzialmente diverso dall’immagine che la tradizione ci ha trasmesso, ma d’altra parte quest’ultima si basa su una descrizione di Boccaccio, i cui tratti essenziali coincidono pure con la ricostruzione odierna, ma che i pittori di epoche successive evidentemente hanno dilatato fin quasi alla caricatura. Il labbro inferiore sporge come dice Boccaccio, ma appena appena, il mento è importante, ma non appuntito, e il naso è aquilino, ma più che altro ha il setto deviato, forse da una gran botta ricevuta in battaglia.


Io poi m’ero scaricato l’immagine e con Faceapp l’avevo ringiovanita, avevo anche cliccato su “Sorriso classico” per figurarmelo, pieno di vita, in un periodo compreso tra l’innamoramento per Beatrice e la battaglia di Campaldino. Se le ossa conservate a Ravenna sono davvero le sue, a quel tempo Dante era così.
Il risultato è sbalorditivo, un giovane con cui vorresti immediatamente fare amicizia.
Finché un bel giorno me lo sono ritrovato davanti, vivo e vegeto, tale e quale al ritratto, con quell’aria intelligente e vivace da ventenne curioso e pieno di belle speranze. A parte lo strano berretto rosso sistemato ampio sulla capigliatura fluente, indossava i jeans e una polo di marca d’un grigio spento, quasi a voler far risaltare, in quel look anonimo, la schietta apertura del volto.

«Voi qui, ser Alighieri?» m’è scappato a fil di voce.
Ha un sobbalzo, fa un passo indietro e mi guarda con l’aria stupita.
«Non siete l’Alighieri?» gli chiedo continuando a dargli del “voi” come fa lui con ser Brunetto all’Inferno.
Allora il suo volto si apre di nuovo in quel sorriso luminoso.
«Son io» mi risponde, «ma come avete fatto a… E voi, piuttosto, siete ombra o omo certo?»

Già. A questo non avevo minimamente pensato. Avendo cura di non farmi scoprire, con le mani nelle tasche mi produco in un gesto di volgare scaramanzia. Lui, nella sua Commedia, incontra solo morti, e a me viene un dubbio atroce: sono io adesso il morto, o è lui?

«Lasciate perdere» mi affretto a dirgli, «non ha la minima importanza. Ma se siete voi l’Alighieri, vi prego, concedetemi un’intervista, un’occasione come questa non posso proprio lasciarmela scappare. Solo alcune domande, ecco tutto».

«E a che uopo?»
«Come sarebbe a dire a che uopo? Per fare uno scoop sui social…»
«Uno scup? Sui soscial?» ripete lui visibilmente sconcertato.
«Prima di tutto» incalzo io per togliergli anche il tempo di riflettere «ripeto la prima domanda: che ci fate voi qui?»
«Per uno come me, che andava vivo nel regno dei morti, tornare da morto in quello dei vivi… Ogni tanto una capatina, avete qualcosa in contrario?»
«No, anzi: e perché così, ventenne o all’incirca?»
«Posso scegliere io come. Voi cosa fareste al mio posto? Ma perché non mi dite chi siete, piuttosto? Voi sembrate sapere tutto di me, mentre io di voi…»
«Ah, scusate, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Francesco Fioretti…»
«Sì, sì, e io Agostino Confessioni… Suvvia, che nome bislacco, ma almeno i francescani, come voi sembrate essere a giudicare dal nome e dalla tonsura, mi son simpatici. E di che vi occupate nella vita, fratello?»

Fratello? Tonsura? Ecco, lo sapevo: è come nella sua Commedia, è uno che le domande le fa lui. E tra un po’ scopro di non essere qui a Milano, oggi, ma in uno qualsiasi dei suoi cerchi infernali.

«Sono un dantista» mi scappa di dire mentre mi avviluppo in questi pensieri, «mi occupo principalmente di voi e delle vostre opere, per cui di domande da fare ne avrei parecchie…»
«Ve ne concedo al massimo tre, poi mi dispiace, ma devo andare…» e intanto rimastica: «Un dantista… e se fossi io il franceschista? Ma perché, dunque, mi chiamate tutti per nome? Non mi risulta che sia un uso del vostro tempo»
«Infatti non lo è, tutti gli altri li chiamiamo col cognome. Solo voi, Totò e Gesù…»
Intanto nella testa il frullio di una miriade di domande. La prima riguarda ovviamente Beatrice, ma subito dopo avergliela fatta me ne pento. Cosa può dirmi di lei che non sappiamo già? E certo non potrà mai mostrarmi una sua foto, quello sì che sarebbe uno scoop. Ma intanto lui ha già cominciato a rispondere.
«So che alcuni hanno dubitato della sua esistenza reale, che hanno pensato che fosse solo una figura allegorica. In parte certo che lo è, qualsiasi persona amata, nella testa di chi se ne innamora, non è mai interamente se stessa. Ma è esistita davvero ed era una ragazza bellissima, se è questo che volete sapere, ed è morta giovane, l’8 giugno 1290, e quel giorno è terminata anche la mia adolescenza, perché il giorno dopo era il mio venticinquesimo compleanno, e noi facevamo finire l’adolescenza col venticinquesimo compleanno…»
«Sì, lo so, lo scrivete nel Convivio. E dunque lei nella Vita nova, tra il primo incontro del vostro nono anno e la sua morte al compimento del venticinquesimo, non è altro che l’incarnazione della vostra “adolescenza”?»
«Però è proprio così che è accaduto. L’ho incontrata al termine della puerizia e l’ho persa al finire della mia adolescenza, che io chiamo in latino vita nova. La mia vita nova è stata lei, la più bella donna che io abbia mai visto. Adesso via, la seconda domanda».
A questo punto, senza star troppo a pensarci, gli chiedo del suo grande amico Guido Cavalcanti.

Sospira, poi attacca:
«Guido, ah, Guido… Aveva dieci anni più di me, ne sapeva una più del diavolo. Mi trasmise la sua passione per Aristotele, fu una fortuna incontrarlo. Anzi, per essere precisi: fu lui a scegliermi. Era ricchissimo, apparteneva a una delle famiglie più importanti di Firenze, ma era anche mostruosamente snob, come dite adesso. Tutti ricercavano la sua amicizia, ma lui la concedeva solo ai pochissimi che riteneva alla sua altezza. Il fatto che a me l’abbia concessa quando io avevo appena 18 anni è una cosa che, allora, mi riempì d’orgoglio. Entrai nella sua orbita e gli devo tutto. Negli anni Ottanta eravamo io e lui i giovani più chic di Firenze e i poeti più in voga. Poi non litigammo, ma negli anni Novanta ci frequentammo di meno. Io ero amico anche di Cino da Pistoia e di Lapo, e lui non li reputava alla sua altezza. Poi riteneva l’amore un supplizio che allontana il grand’uomo dalla piena realizzazione di sé. Un tormento, una sofferenza. E quando Beatrice morì e io la trasformai nel simbolo della mia salvezza si rifiutò di seguirmi su questa strada che riteneva assurda. Lo so che può sembrare assurdo anche a voi, però è così: io mi sono salvato grazie a lei…»
«Salvato da cosa?»
«Da me stesso. Ci si salva o non ci si salva da se stessi, da che altro? Sono dentro di noi i principali ostacoli alla piena realizzazione dei nostri sogni, dei nostri ideali. Ce ne sono anche fuori di noi, e sono tanti, a volte apparentemente insormontabili, ma la maggior parte di noi non arriva nemmeno ad affrontarli perché i mostri infernali se li porta dentro. Poi certo, gli altri possono mandarti in esilio, possono umiliarti, accusarti di colpe che non hai mai commesso, ma nessuno, dico nessuno, può impedirti di scrivere la tua Commedia, se è destino che tu la scriva, se vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. Questi due versi, non me ne sono neanche accorto, li ho ripetuti due volte nel poema, a Caronte e a Minosse, ma erano quelli che mi ripetevo sempre mentre portavo a compimento la mia opera. Vuolsi così colà dove si puote ogni volta che dovevo rifare i bagagli, rimettere in borsa il manoscritto e scappare da una città, da Firenze, da Bologna, da Lucca, col bando dei guelfi neri che m’inseguiva come una minaccia perenne di città in città. Ognuno di noi ha la sua Commedia da scrivere, il suo cammino da compiere, e chi può impedirtelo se ti sei salvato dai mostri che avevi dentro? Per quanto mi riguarda, che lo volesse o no, fu Beatrice a salvarmi dai miei».

Ravenna, gli artisti svelano e raccontano il volto di Dante

Mi resta un’ultima domanda, anche se gliene farei altre mille. Se però gli chiedo dei suoi spostamenti nel primo periodo dell’esilio, va via prima di aver terminato la risposta. Le questioni aperte del suo poema, invece, sono troppe per chiedergliene una e basta. Un’altra mia curiosità è quella che affiora tra tante:
«Come vi sembra, Dante, il nostro mondo, migliore o peggiore del vostro? Forse siete qui da troppo poco tempo per esservene fatto un’idea precisa»
«No, non è così, da lassù vedo tutto»
«Lassù… dove?»
«In Paradiso, intendo. Non è come io l’immaginavo, ma gli somiglia molto. Sarebbe difficilissimo da spiegare. Mettiamola così: noi siamo luce, nella luce. Il vostro mondo? Per certi versi è molto meglio, per altri molto peggio del nostro. Ai miei tempi per esempio gli avversari politici a volte tentavano di ammazzarsi a vicenda, la gran massa della popolazione era analfabeta e moriva letteralmente di fame, andarsene come me a 56 anni era già ritenuta una fortuna, e d’inverno spesso si tremava di freddo. Però c’erano anche cose che voi avete irrimediabilmente perduto: il cielo notturno era pieno di stelle che voi non vedete più, nelle guerre morivano gli aristocratici e i re, armi in pugno, mentre oggi sono soprattutto i civili, donne, vecchi e bambini, a lasciarci le penne, bombardati magari dai droni; le nostre città puzzavano perché non c’erano fogne, ma non rischiavamo l’estinzione per il cambiamento climatico. Soprattutto avevamo qualcosa in cui credere e per cui lottare, mentre voi, per quanto vi sforziate, non riuscite mai a uscire dalle trappole dell’economia e del vostro sostanziale materialismo. Ciò di cui parlavamo io e il mio amico Guido Cavalcanti nelle sere d’estate è infinitamente più interessante dei vostri noiosissimi discorsi su pappa e dindi e, da un po’ di tempo a questa parte, sui vaccini e sulle mascherine. Il segno è che noi scrivevamo per i posteri, immaginavamo oltre noi una storia almeno tanto lunga quanto quella che ci separava dagli antichi, e in questa storia volevamo fare bella figura. Voi invece scrivete gli instant book, e i posteri, se vi leggeranno, vi troveranno decisamente monotoni».

Si scalda parlando, s’infervora, e finalmente lo riconosco.
Si mette a parlare malissimo di noi, come a suo tempo dei suoi contemporanei.
«Voi è come se viveste in un mondo terminale» continua accalorandosi, «quando parlate di futuro vi immaginate una storia post-umana fatta di tecnologia sofisticata, macchine e robot, mentre ficcatevi una buona volta in zucca che se l’umanità vi sopravvive sarà sempre la solita, fatta – per fortuna – in gran parte di aspirazioni indecifrabili, pulsioni incorreggibili e tanta irrazionalità. È per questo che leggete ancora il mio Inferno. Vi credete gli ultimi uomini della storia e non sapete più pensare a un futuro che oltrepassi l’adolescenza dei vostri figli, per i quali non riuscite a immaginare che un avvenire pallosissimo: sistemazione, matrimonio, figli e meccatronica. Pecore matte, ecco cosa siete. Intanto noi facevamo le guerre, ma erano guerre oneste, e non rischiavamo, come voi, l’estinzione».

S’arrabbia, è furibondo adesso, e finalmente vedere i suoi proverbiali scatti d’ira per zelum sul suo vero volto, acuto e sanguigno, e fino a poco prima sorridente, me lo fa rivivere nella dimensione giusta.
«I posteri, se ve ne sopravvivranno» prosegue alzando l’indice della mano destra e il tono della voce, «non vi perdoneranno mai il fatto che li abbiate immaginati così terribilmente freddi, razionali, e in una parola noiosi. E si vendicheranno di voi dimenticandovi in blocco».

Un gruppo di persone si ferma intorno a noi, fa capannello, sento uno che sussurra “l’è màat?”.
S’accorge anche lui di aver esagerato:
«Non m’è consentito arrabbiarmi, ma è più forte di me… E adesso per colpa vostra mi richiameranno lassù» conclude riabbassando il tono.
S’avvia mestamente per andarsene, visibilmente irritato fa le fiche al tipo che gli ha dato del matto, e che a sua volta non decifra il gestaccio, poi mi saluta con un cenno nervoso della mano.
Non ho avuto molto tempo e me ne rammarico.
Adesso, però, ho finalmente capito perché, dopo settecento anni, gli vogliamo ancora così bene.

Francesco Fioretti

Francesco Fioretti è nato a Lanciano, in Abruzzo, nel 1960, da madre siciliana e padre pugliese d’origine toscana. Dopo gli studi universitari a Firenze, ha conseguito il dottorato di ricerca a Eichstätt, in Germania. Ha insegnato in Lombardia e nelle Marche. Dantista e scrittore, ha esordito nella narrativa con Il libro segreto di Dante, che ha scalato le classifiche italiane con oltre 200.000 copie vendute, seguito poi da Il quadro segreto di Caravaggio, La profezia perduta di Dante e La selva oscura. Il grande romanzo dell’Inferno, una “riscrittura” in prosa moderna dell’Inferno di Dante.
La biblioteca segreta di Leonardo, in occasione dei cinquecento anni dalla morte del genio, è stato pubblicato in diversi Paesi europei.

Dedicato al genio di Raffaello, Raffaello. La verità perduta, edito da Piemme.

Il suo ultimo romanzo Non di solo amore. La via dantesca alla felicità è stato pubblicato nel 2021 (Piemme).

“Aprite a caso la “Divina Commedia” e leggete pochi versi. Cercate di capirli con l’aiuto delle note, e rileggeteli finché non siete in grado di recitarli con buona intonazione. Domani mi racconterete cosa avete letto e cosa fantasticato. Parleremo di due cose, quest’anno, con particolare intensità, come Dante e Guido Cavalcanti a Firenze nelle notti stellate. Parleremo quasi solo d’amore. D’amore, e di felicità”. Il professor Deaglio, insegnante di lettere in un liceo di provincia, ha da sempre una grande passione per Dante. Non si tratta solo del timore reverenziale di un ‘prof’ nei confronti del Vate, né di una fascinazione acquisita col lavoro. Dante gli ha salvato la vita, durante l’adolescenza, gli ha fatto comprendere di non essere l’unico a pietrificarsi di fronte alla donna amata, né di essere poco normale perché considerava la letteratura un rifugio. E, da quel momento, la sua esistenza è stata scandita da letture e riletture per cercare spunti sempre nuovi sul suo modo di concepire il mondo. Ora, quarantenne, autore di un romanzo di successo, ha deciso di provare a condividere ciò che Dante gli ha insegnato, e non si tratta solo delle sublimi parole con cui lo ha strabiliato, ma di veri e propri consigli per raggiungere la felicità, consigli modernissimi ed efficaci. Anche perché è Dante stesso, nella dedica della sua opera più celebre,”la Commedia”, che Boccaccio eternò come “Divina”, a dire di voler far dimenticare ai lettori la “miseria della loro condizione” e far raggiungere la beatitudine in ‘hac vita’, in questa vita, e non solo in quella eterna di cui narra nelle tre cantiche. L’amore, le parole, il dolore, la perdita, la spiritualità, tanti sono i temi affrontati da Dante con profondità ed efficacia rarissime. Così come il cielo stellato che possiamo rimirare fuori dalle nostre finestre oggi ci incanta e ci fa esprimere desideri pur essendosi spento centinaia di anni fa, così queste parole vecchie di 700 anni si rivolgono proprio a noi che oggi andiamo cercando una scintilla di felicità.

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