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Articolo a cura di Grazia Maria Francese
Se c’è una pagina dimenticata nel grande libro della Storia, è quella dell’impero portoghese. Il primo impero coloniale al mondo e anche l’ultimo: la sua esistenza si conclude infatti nel 1999, con la restituzione di Macao alla Cina.
I documenti che ne tracciano la parabola sono ingoiati dal terremoto del 1755, un evento apocalittico che rade al suolo Lisbona spazzando via, oltre agli archivi, un terzo della popolazione cittadina. Una catastrofe considerata da alcuni come la punizione divina per il massacro, avvenuto pochi anni prima per mano portoghese, degli indios e dei gesuiti che li proteggevano: questa vicenda è soggetto dello splendido film “Mission” di Roland Joffé.
Nel 1574, quando una flotta portoghese fa scalo all’isola di Mossambique, tali eventi sono ancora di là da venire. L’impero fondato da Albuquerque il Terribile si estende come una ragnatela, che ha il suo centro a Lisbona e ingloba gran parte del mondo conosciuto: Brasile, tutta l’Africa e le coste di gran parte dell’Asia, fino al remoto Japòn.
I fili della ragnatela sono le rotte delle navi. Ciascuna tocca una collana di porti, che costituiscono in sostanza l’impero portoghese: i colonizzatori sono troppo pochi per spingersi all’interno, men che meno per tentarne la conquista. Alcuni tentativi sfortunati dimostrano ben presto l’impossibilità di riuscirci.
Nei porti sorgono fortificazioni, chiese e soprattutto la feitorìa, l’insediamento commerciale. Sono i mercanti la forza dell’impero. Rastrellano nell’entroterra le mercanzie da portare in Europa, ma non solo: le colonie portoghesi giocano un importante ruolo di scambio commerciale tra Africa, India, sud-est asiatico, Cina e Japòn. Nessuna delle popolazioni che si affacciano alle coste toccate da questa immensa “ragnatela”, ha navi capaci di trasportare tante mercanzie così lontano.
L’isola di Mossambique è una tappa regolare sulla rotta di circumnavigazione dell’Africa. In primavera le navi salpano da Lisbona: una piccola flotta, in genere cinque imbarcazioni di grande stazza (circa 1500 tonnellate: tra marinai, soldati, mercanti e missionari, ciascuna ha a bordo 400-500 uomini. Fatto scalo a Madeira o alle Azzorre prendono il vento verso sud, verso la costa della Guinea.
Al passaggio della linea equinoziale, cioè dell’equatore, a bordo si verificano trasformazioni inquietanti. L’acqua dolce diventa putrida nei barili, gli oggetti di ferro arruginiscono, carta e stoffe ammuffiscono. Se si procede verso sud, il clima rinfresca e l’acqua torna bevibile. Quando però una nave incappa nella bonaccia o nelle secche al largo della costa africana, la sua fine è segnata. Resterà a galleggiare nella calura immobile, carica di cadaveri, fino a disintegrarsi.
Non è ancora finita. Punto cruciale nel periplo dell’Africa è quello che l’esploratore Bartolomeu Diaz aveva battezzato “Cabo dal Tormentas”, nome poi trasformato per decreto regio in “Capo di Buona Speranza”. Per chi riesce a doppiarlo senza spappolarsi sulle rocce, come era accaduto allo stesso Diaz, dall’altra parte si apre un orizzonte nuovo: l’immensa distesa dell’Oceano Indiano.
Scampate ad altri pericoli nascosti nelle secche del canale di Mozambico, a selvaggi colpi di vento sulla costa di Terranadal, chiamatacosì perché avvistata la prima volta nel giorno di Natale, le navi con le vele stracciate e lo scafo malridotto entrano in porto. Questo è lo scenario che si presenta ai passeggeri.
Mossambique è una piccola isola che dista un miglio dalla terraferma. Di lato due isolotti disabitati proteggono il porto. Esso è talmente grande che vi possono approdare molte navi, al sicuro come se fossero in un fiume. Le acque sono così profonde che esse si ormeggiano proprio sotto il castello, tanto che si potrebbe gettare una pietra sulla riva. L’isola è pianeggiante, bordata di sabbia bianca.
Il 5 agosto 1574 vi approda la nave Chagas, ammiraglia della flotta salpata quell’anno da Lisbona. Tra i passeggeri imprigionati per mesi in cabine di dimensioni claustrofobiche, che percorrono la passerella con passo incerto c’è un uomo bianco, molto alto, con una corta barba ricciuta. Dal recinto degli schiavi che si trova sull’isola, occhi scuri ne spiano lo sbarco o forse non lo vedono nemmeno, perduti nella disperazione di un mondo che si è disintegrato.
Così Yasuf o Yasuké, futuro samurai, incontra l’uomo che gli salverà la vita e lo porterà con sé fino in Giappone: l’italiano Alessandro Valignano, Visitador delle missioni gesuitiche nelle Indie Orientali.