Articolo a cura di Roberto Orsi
È un must dell’estate, per ripararsi dal sole, per moda, per vezzo, per fascino, per nascondersi, per farsi notare: parliamo del cappello di paglia.
I cappelli di paglia hanno fatto la storia del costume: erano uno dei souvenir più richiesti dai nobili impegnati nel Grand Tour italiano dal 1700 (e su questo puoi leggere un articolo dedicato) in poi fino a diventare un accessorio indispensabile per tutto l’Ottocento (sempre in base ai costumi dell’alta società dell’epoca).
E pensare che in origine era usato da chi lavorava nei campi per ripararsi dal sole, cercando un po’ di refrigerio sotto la larga tesa dal caratteristico color avana.
Possiamo affermare senza tema di smentita che il cappello di paglia è un prodotto tutto italiano, e in particolare della Toscana dove l’arte dell’intreccio della paglia e realizzazione di cappelli è molto antica risalendo al XIV secolo. I documenti attestano che già nel 1341 il commercio era fiorente. Nel ‘500 si raggiunse un tale livello di raffinatezza che il Granduca Cosimo I ne donò numerosi esemplari a vari sovrani d’Europa. Fu in questo periodo che i produttori di cappelli di paglia si riunirono in una categoria professionale e i cappelli di paglia compaiono nell’elenco dei prodotti soggetti a una tassa doganiera.
Prodotti un po’ in tutto il fiorentino, questi oggetti in paglia avevano però la loro capitale in Signa, dove divenne una vera manifattura ad opera di un bolognese, Domenico Michelacci, trasferitosi a Signa nel 1714. Fu dal 1718 che quell’arte e quel commercio fiorirono al punto di divenire un vero e proprio piccolo impero economico.
Se, però, in origine s’intrecciava la paglia residua della mietitura, il Michelacci voleva prodotti di qualità, realizzati con steli sottili, uniformi e belli candidi, così passò alla coltura del grano “marzuolo”, seminato in modo fittissimo e raccolto in anticipo sui tempi di maturazione (tra maggio e giugno), per ottenerne una paglia più lunga più morbida ma comunque resistente: fu così che Signa, e le località vicine, divennero centro promotore di produzione di paglia per cappelli esportati poi in tutto il mondo.
La lavorazione della paglia raggiunse cifre altissime: si dice che alla fine dell’Ottocento si contavano circa 80.000 addetti, e circa 580 ettari a seminativo.
Un lavoro, quello di raccolta e intreccio di paglia per cappelli, che era tutto manuale (se escludiamo quello delle macchine assortitrici, per calibrare gli steli di paglia, e delle presse) e di colore rosa: la raccolta era curata prevalentemente da donne che ne formavano vari mazzetti detti “manate” proprio perché ogni mazzetto era costituito da quanta paglia potesse stringersi in una mano. L’intrecciatura, poi, era praticata dalle bambine, per gioco, e dalle donne, per necessità, che integravano così i magri bilanci familiari.
Un mestiere che si faceva in strada, in compagnia delle vicine di casa, anche loro lavoranti a cottimo della paglia. Tra un intreccio e l’altro le “trecciaiole”, così erano denominate le donne che facevano questo lavoro, chiacchieravano e cantavano, per un conforto reciproco, essendo accomunate dallo stesso destino e per alleggerire così la fatica del lavoro. Le trecce venivano modellate e rifinite sempre a mano (solo dopo fu introdotta la macchina da cucire).
Il successo dei cappelli toscani era legato sicuramente alla materia prima ma anche all’accurata confezione e alla creatività delle fogge. Al livornese Giuseppe Carbonai si devono, ad esempio, i fioretti (cappelli a falda larga), che lui aveva perfezionato mentre sono del 1835, le cappotte, cappelli ad imbuto, una specie di alta guglia tagliata a tronco di cono.
Ma un vero e proprio salto economico si ha nel 1840, quando il granduca Leopoldo II vuole che la strada ferrata tra Firenze e Livorno, la prima in Italia di valore commerciale e nota come “Leopolda”, abbia una stazione a Signa, affinché fosse facilitato l’imbarco di paglia e cappelli dal porto marittimo, verso rotte europee e transoceaniche.
Naturalmente, ieri come oggi, non mancarono le imitazioni, ma se quello toscano non conosceva uguali per la qualità della paglia e per la confezione, sul prezzo la concorrenza era un aspetto da considerare. Vennero così studiati dei modi per abbassarlo: così Carlotta Fancelli propose di realizzare trecce con soli 5 fili (che in genere erano composte da 13, 11 o, al minimo, di 7 fili). Fu anche proposto di abbassare le paghe delle trecciarole, ma questo determinò una sorta di sciopere delle lavoranti che nel maggio del 1896 incrociarono le braccia e, capitanate dalla Baldissera, chiesero a gran voce i loro diritti.
La produzione ed esportazione di cappelli di paglia subisce poi due grandi crisi nel corso del Novecento, una prima nel 1926 e uan più forte negli anni ’50, dovute a dei cambiamenti radicali negli usi e nei costumi. Ma ne esce a testa alta, per non conoscere più momenti di bui.
Curiosità
Il cappello di paglia era detto anche “di Livorno” oltre che di Firenze, perché era da Livorno, che, all’inizio, i navicellari li trasportavano e vendevano ai turisti, specialmente inglesi.
Si tramanda che gli Inglesi, (forse invidiosi ?), avessero importato quantità enormi di terra toscana perché solo sui dolci declivi delle colline veniva prodotta la paglia migliore.
Il cappello di paglia è il protagonista di molte opere: è del 1815 “Un cappello di paglia di Firenze”, commedia di Eugene Labiche (titolo originale “Un chapeau de paille d’Italie” da cui poi fu tratto un film muto muto, nel 1928 diretto da René Clair; nel 1945 Nino Rota aveva messo in musica e rappresentato un libretto, proprio e della madre, intitolato “Il Cappello di Paglia di Firenze”.
All’Esposizione universale di Parigi del 1855, nella categoria “Fabbricazione degli oggetti di moda e fantasia”, gli operai e le operaie produttori di trecce per cappelli sono premiati con una medaglia d’onore consegnata dall’imperatore Napoleone III di cui riportiamo la motivazione integrale: «Per quanto concerne l’industria della paglia, la Toscana deve essere classificata ai primi posti. L’esposizione dei fabbricanti di questo Paese è delle più notevoli: presenta una raccolta di trecce di paglia, dalle più ordinarie alle più fini. Anche il campionario di cappelli è molto bello e nel numero si dimostrano superiori in finezza a tutto ciò che è stato fatto fino ad oggi».
Il cappello di paglia al cinema:
Marchesa de Merteuil (Annette Benning) in Valmont
Amy Fowler Kane (Grace Kelly) in Mezzogiorno di fuoco, 1952
Rossella O’Hara (Vivien Leigh) in Via col vento 1939
Hester (Maggie Smith) in Un te con Mussolini di Zeffirelli
George Emerson (Julian Sands) in Camera con vista
Il cappello di paglia nell’arte:
Il mangiafagioli di Annibale Carracci
Autoritratto di Van Gogh
La colazione dei canottieri di Pierre August Renoir
Fonti:
https://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/2003/07/29/LTILV_JN488.html
https://www.labellezzadellacarta.it/gli-storici-cappelli-di-lastra-a-signa/
https://www.lib21.org/magazine/un-cappello-di-paglia-di-firenze/