In occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo, nel salottino di TSD torna a trovarci Sabrina Ceni.
Pochi giorni fa è uscito nelle librerie “L’araldo della Terza Parte”, il seguito del tuo precedente libro “Arpaïs. La memoria delle anime imperfette”. Il tuo nuovo lavoro riprende le vicende dove le avevamo lasciate: siamo nel 1244 e Arpaïs, fuggita dalle fiamme di Montsegur, porta con sé un antico manoscritto. Di cosa si tratta?
Ciao Roberto e grazie per il tuo invito, è bello essere nel salotto di TSD. Un saluto a tutti gli amici del gruppo.
Il manoscritto è la “Interrogatio Iohannis (apostoli et evangelistae in cena secreta regni coelorum de ordinatione mundi istius et de principe et de Adam)” o “Cena Segreta”. È da questo documento che è scaturito il titolo del romanzo. Così come per il primo, mi sono ispirata ai fondamenti della “teologia catara”.
Si tratta di uno scritto apocrifo di origine bogomila utilizzato anche dai Catari e, come afferma Zambon nel suo “La Cena Segreta, trattati e rituali catari”, il loro libro sacro o, meglio, l’unico tra i pochi testi che ci sono pervenuti. Non esiste, ad oggi, un documento originale; solo alcune copie di due versioni latine tradotte da un testo slavo o greco.
Nella versione detta “di Carcassonne”, viene citato Nazario, uno dei rappresentanti più attivi del catarismo italiano. Attraverso la testimonianza dell’inquisitore Raniero Sacconi, sappiamo che Nazario si avvicinò all’eresia attorno al 1190 e venne istruito dal vescovo e dal “figlio maggiore” della Chiesa di Bulgaria. Da loro avrebbe avuto la “Cena segreta”. Nazario fu vescovo della Chiesa di Concorezzo fino alla morte, attestata dopo il 1235 e lui stesso è la dimostrazione della diretta filiazione della Chiesa di Concorezzo dall’ordo Bulgariae, fautore del dualismo moderato.
A livello narratologico, la Cena segue uno schema che possiamo ritrovare in altri scritti apocrifi ed è considerata una “Rivelazione per il fedele”.
Attraverso un dialogo tra Gesù e Giovanni, uno dei discepoli prediletti, il documento porta alla luce il vero insegnamento di Cristo circa i misteri più alti della fede. Il testo è diviso in quattro sezioni. Alla prima si rifà il titolo del romanzo.
Satana, in origine, era l’intendente del Padre Supremo ma, desiderando di essere simile all’Altissimo, sedusse una parte degli angeli; per questo, risponde Gesù: – Il Padre mio gli cambiò aspetto a causa del suo orgoglio: gli fu tolto lo splendore, il suo volto diventò come ferro rovente, in tutto simile a quello dell’uomo; e trascinò con la sua coda la terza parte degli angeli di Dio… Allora Satana supplicò il Padre ed Egli ebbe misericordia di lui e gli concesse di fare ciò che voleva per sette giorni. Fu così che Satana creò il mondo visibile e materiale.
La terza parte corrisponde quindi agli angeli caduti sulla terra e imprigionati in corpi umani. Qui si rivela la vera condanna dell’uomo, la sua natura primordiale e l’impossibilità di abbandonare “questi gusci” di materia per tornare presso l’Altissimo.
Nella seconda sezione viene illustrata la creazione di Adamo ed Eva e l’imprigionamento di due angeli nei loro corpi; i due, sedotti dal serpente, danno inizio al dominio diabolico sulla terra. Enoc e Mosé vengono mostrati come emissari di Satana, da qui, il rifiuto dell’Antico Testamento.
La terza sessione spiega la missione del Salvatore inviato da Dio: Cristo, un angelo che discende dal Settimo Cielo attraverso l’orecchio di Maria. Egli ha due compiti: rivelare il vero Padre e insegnare agli uomini che la salvezza è possibile solo per mezzo del consolamentum, cioè il battesimo nello Spirito, contrapposto al rituale con acqua celebrato dal Battista e adottato dalla Chiesa cattolica. Su questa terza sessione, che mette in evidenza la natura “non umana” del Salvatore, si fonda il rifiuto cataro dell’Eucarestia. “La Cena Segreta nel regno dei cieli…” è quindi una cena mistica: il pane della comunione è il Padre Nostro e il calice è il Testamento evangelico.
La quarta e ultima sezione tratta il tema dell’Apocalisse e si rifà al vangelo di Matteo e all’Apocalisse di Giovanni.
L’altro testo attorno al quale ruota il romanzo è il Liber de duobus principiis, ovvero, una copia dell’originale scritto nella zona del Lago di Garda, attorno al 1240, da Giovanni di Lugio, un ex monaco che aveva aderito all’eresia. Si tratta del più importante testo cataro ritrovato fino ad oggi. Prima di questa scoperta la conoscenza del catarismo era pressoché nota solo attraverso scritti inquisitoriali. Il documento era nel fondo dei Conventi soppressi della Biblioteca Nazionale di Firenze. Sequestrato dagli inquisitori, il Liber dovette finire in qualche monastero. Nel Settecento faceva parte della biblioteca del convento domenicano di San Marco e, dopo la soppressione degli enti religiosi da parte di Napoleone, passò alla Biblioteca Magliabechiana che, nel 1861, divenne l’attuale Biblioteca Nazionale. Il Liber contiene il Libro dei due princìpi e un Rituale latino.
Poterlo visionare, guanti alle mani, è stata un’emozione incredibile e approfitto dell’occasione per ringraziare di cuore la Biblioteca. Poco più grande di un iPhone (178×118 mm) è composto da sei “quaderni”, per un totale di 54 fogli da 28 righe ciascuno. Sono due le mani che si alternano nella copiatura dell’originale andato perduto. All’interno, una frase crittografata rivela la natura eretica del documento. Quei crittogrammi rivivono nel romanzo e non solo in modo metaforico.
Volevo evidenziare le connessioni tra le varie chiese catare in un tempo in cui i commerci erano floridi e la mobilità delle persone era all’ordine del giorno. Se il cristianesimo delle origini si era sviluppato lungo le tratte dei mercanti, così fece l’eresia. I contatti tra i bons òmes occitani e quelli italiani non furono solo una conseguenza della fuga dei primi dopo la Crociata Albigese, verso l’Aragona, la Lombardia o il centro Italia. Il catarismo nella nostra penisola era vivo già da molto tempo prima.
Uno dei precetti era quello di “non giurare”. A Siena, nel 1176 venne siglata una pace con Firenze; come era in uso a quei tempi, i senesi erano obbligati a giurare fedeltà, ma coloro che avevano fatto voto di non giurare vennero esclusi. Stessa cosa a Lucca, nel 1184: tra i duecento lucchesi scelti per lo stesso motivo, i fiorentini fecero un’eccezione: a meno che uno di loro non sia vincolato da voti che gli vietino di giurare. La situazione si ripete nel 1203, a Montepulciano, un console della cavalleria, un medico, promette ma non può giurare. Tali episodi non solo ci rivelano la presenza di seguaci dell’eresia nel nostro territorio, ma anche che fossero un numero cospicuo. Il fatto che i comuni prevedessero questo tipo di clausola in situazioni tanto delicate, e che la stessa venisse accettata da entrambe le parti, ci dà l’idea di una prassi consolidata.
Dopo secoli il catarismo si è “riacceso” in una forma che, a mio avviso, va oltre l’interesse per la ricerca storica. In Occitania, questa rinascita è avvenuta per la necessità di riscoprire le radici di un popolo, per un orgoglio regionale che ricercava una sua identità, un’identità schiacciata dalla conquista ma che aveva lasciato tracce indelebili sul territorio. In Italia, queste tracce sono state celate così in profondità da non lasciare memoria di sé. Eppure, proprio dagli artefici di tale censura riemergono indizi, prove; le troviamo negli affreschi delle nostre chiese, negli archivi delle biblioteche, nella sentenza di una condanna per eresia. Un documento che, per quanto seguisse uno schema che niente lasciava trapelare se non l’accusa stessa, riportava un nome. Quel nome ci parla di sé, ci racconta una storia diversa da quella che vogliono farci credere come l’unica possibile, solo perché l’hanno scritta loro. Forse dobbiamo solo imparare a guardare con occhi diversi quello che abbiamo sempre avuto davanti. Qual è, dunque, il filo che unisce l’Occitania alla nostra penisola, ma soprattutto quale quello che unisce gli uomini di quel tempo a noi? Quanti e quali documenti si celano negli archivi delle nostre biblioteche velati di polvere e verità?
In questo secondo capitolo la protagonista si reca a Fiorenza (l’attuale Firenze) in piena lotta tra Guelfi e Ghibellini. Che cosa ci puoi raccontare della tua città di quel tempo?
La Firenze di quel tempo è quella delle “conventicole degli eretici consolati”; è un covo di vipere, una città su cui aleggia il demonio, a detta di papa Innocenzo IV, fuori e dentro le mura ma, soprattutto, è una città fedele all’Impero. È ancora la città del giglio bianco.
Ricordo di essere rimasta sorpresa nel venire a sapere che una cospicua percentuale di fiorentini aderisse all’eresia catara. Ovunque cerchiate “Culla del Rinascimento” trovate Firenze ed è così che ho sempre pensato alla città dove sono nata. L’unico rogo di cui avevo ricordo dai libri di storia delle medie o del liceo, era quello del Savonarola, giustiziato, per ben altri motivi, più di due secoli dopo gli eventi che condussero ai fatti dell’agosto del 1245 e a quelli successivi. Magari i miei libri di testo erano un po’ datati, come me, del resto; in fondo negli anni ’80 il tema dell’eresia catara non era stato ancora approfondito, almeno qui in Italia; era un argomento riservato ai più eruditi e non incluso nella didattica. Da allora, per fortuna, molto si è fatto nella ricerca e, oggi, la situazione è molto diversa.
La Firenze di quel tempo è quella antecedente ad Arnolfo di Cambio e agli altri artisti che ne definirono la forma e l’anima; una città diversa da quella che siamo abituati a vedere e divisa in sestieri. Il profilo non è ancora quello della cupola del Brunelleschi o di Palazzo Vecchio. Piazza della Signoria non esiste, esiste Via di Bellanda e quello spazio fa parte del Sesto di San Piero Scheraggio; in gran parte, è territorio degli Uberti, famiglia di stirpe magnatizia che consente la presenza di “case catare” nei pressi dei propri possedimenti.
Quella Firenze è una città buia, fatta di chiassi angusti e maleodoranti, con torri che impediscono alla luce del sole di filtrare, se non nelle ore centrali della giornata e terrazzamenti così fitti che a cavallo si rischia di sbatterci contro. Ma è già una città con strade ammattonate: qualcosa di non così frequente a quei tempi. Ricostruire quella città è stato complicato e divertente al tempo stesso. Mi sono basata sulle indicazioni di Robert Davidsohn, rifacendomi alle date di costruzione delle chiese più antiche che, a quei tempi, si trovavano ancora fuori dalla cinta muraria come, per esempio, San Jacopo alle Vigne, oggi San Jacopo in Campo Corbolini o Santa Maria alle Vigne, oggi Santa Maria Novella. Con quella mappa ho visitato la mia città con un occhio nuovo.
La vita pubblica ruota ancora attorno a Orsanmichele, Orto San Michele come lo riporta Giovanni Villani, non lontano dall’odierna piazza della Repubblica, snodo di un’area che era stata intersezione tra il cardo e il decumano dell’antica città romana. È qui che vengono ancora convocate le assemblee pubbliche ed è qui che si trova il mercato; attorno vi sono le dimore delle casate più eminenti. Proprio questa centralità rende Orto San Michele teatro di gravi fatti di sangue. La tensione che si era creata in decenni di scontri tra le fazioni filopapali e filoimperiali trabocca in ferocia collettiva. La violazione della legge che vieta le esecuzioni capitali all’interno delle mura, ci dà un’idea di quanto quella ferocia abbia covato a lungo sotto la cenere per incendiarsi ed esplodere con conseguenze devastanti. L’indignazione del papa di fronte a tali eventi costò ai fiorentini la scomunica, senza distinzione tra chi aveva agito in nome della Chiesa e chi in nome dell’Impero.
Il grano di Fiorenza si tinse di sangue, riaccendendo una violenza che aveva origini ben lontane nella storia della città e che si sarebbe alimentata ancora dell’odio di fazione. Il pane di quegli anni fu un pane amaro, impastato con rancore e veleno, servito sulle tavole dei fiorentini, nutrì di odio le nuove generazioni in una spirale di sospetti e delitti che avrebbero portato i fratelli a tradire i fratelli, i figli a tradire i padri. A lungo, cumuli di pietre intralciarono le strade, resti di quelle torri abbattute durante gli scontri tra consorterie. Solo più tardi, il Comune le avrebbe reimpiegate per costruire le mura d’Oltrarno.
Su questo sfondo le vicende politiche si intrecciarono con quelle del catarismo. I ghibellini vennero spesso accusati di aderire all’eresia, a volte a ragione, spesso anche perché una tale accusa, comportando la scomunica, sentenziava la confisca dei beni, l’esilio e, in certi casi, la morte: un ottimo mezzo per eliminare i nemici e impossessarsi dei loro averi.
Tra i chiassi angusti di Fiorenza, mi auguro incontrerete Pace e Barone de’ Baroni, Lamandina e il marito Rinaldo di Pulce, suo fratello Gherardo, il vescovo cataro Torsello e il perfetto Gerardo da Rignano, Albizo Tribaldi de’ Caponsacchi e la moglie Adelina. E se doveste aver bisogno di traghettare di là d’Arno, chiedete pure al Ghiozzo, poche monete e non vi negherà di certo un passaggio. Ma nel caso foste così sprovveduti da inoltrarvi fuori dalle mura e costeggiare il vecchio acquedotto romano, abbiate l’accortezza di non avvicinarvi troppo a Santa Maria alle Vigne; potresti imbattervi negli inquisitori Ruggero Calcagni o Pietro da Verona. Uomo avvisato…
Il racconto in questo romanzo si snoda su quattro orizzonti temporali. Il 1244, il 1321, il 1939 e il 2021. Come mai questa scelta? È stato difficile incastrare le vicende?
Lo scopo del romanzo era evidenziare il filo che unisce il catarismo occitano a quello italiano, anche con le differenze dottrinali che sorgono all’interno dell’eresia. In particolare, mi interessavano i legami tra queste due realtà geografiche e come questi siano stati possibili nella distanza fisica ma soprattutto temporale. Non ho creato una struttura di incastri a livello narratologico ma, appunto di continuità. Il romanzo copre un arco di tempo che va dall’aprile del 1244 al settembre del 1286.
Il 1939 è una data importante perché legata al ritrovamento del Liber de duobus principiis di Giovanni di Lugio.
L’idea di nominare il 1321 e il 2021 ha preso forma mentre stavo finendo la correzione della bozza. Ho firmato il contratto con Ali Ribelli Edizioni nel maggio del 2020 ed ero certa che il romanzo sarebbe uscito entro settembre. Poi, per una serie di cose, la pubblicazione è stata rimandata al 2021. Difficile non pensare al rogo di Villerouge-Termenés del 1321 e alla profezia lanciata dalla voce di quello che simbolicamente viene considerato l’ultimo cataro, Guillaume Belibaste: “Tra settecento anni questo lauro rifiorirà”.
Inserire questa ricorrenza, questo “scoccare della mezzanotte”, potrebbe sembrare presuntuoso e magari un po’ lo è davvero, ma non è stata una cosa programmata e, alla fine, mi sono convinta che, forse, non era solo una coincidenza e che davvero la data di uscita del romanzo non avrebbe potuto essere diversa. Ho impiegato quattro anni per scrivere la seconda parte della storia e mi piace pensare che Arpaïs abbia un po’ manovrato dietro le quinte, per arrivare proprio a questo momento.
In realtà, c’è un’altra data alla quale devo molto, quella dell’Antefatto: febbraio 2009. È uno dei sassolini che hanno tracciato la mia strada e si riferisce a un evento accaduto presso la piccola biblioteca di Bibbona, una località nell’entroterra del litorale toscano. Ho iniziato le ricerche per la stesura di Arpaïs a Firenze per poi arrivare fino in Occitania. E dall’Occitania sono arrivata a Mallorca, passando per Bibbona, per tornare a casa e scoprire che quello che cercavo non era poi così lontano. Da quella piccola biblioteca sono scaturite molte delle idee del romanzo e mi sembrava giusto far iniziare “L’Araldo” proprio da lì. In fondo, il viaggio di Arpaïs è un po’ anche il mio.
Questa è stata, sul nostro gruppo Facebook, la settimana dedicata alla persecuzione contro i Catari. Dopo aver scritto due romanzi su queste vicende, cosa ci puoi direi di questa dottrina?
Francesco Zambon afferma che il catarismo è stato trattato più come un mito politico o un tema occultistico che come un capitolo di storia del pensiero o delle religioni, e si riferisce ai segreti o ai presunti tesori, ai rapporti con i Templari, alla leggenda del Graal e agli scritti di Otto Rahn.
È con Déodat Roché che la ricerca storica inizia ad avere più peso. Nel 1950, a Montségur, Déodat fonda “la Société du souvenir et des études cathares”, tutt’oggi attiva; L’anno prima, dà il via alla pubblicazione dei “Cahiers d’études cathares”. Tra i suoi discepoli Renè Nelli e Simone Weil.
Ed è la visione di Simone Weil che, secondo me, rispecchia la vera natura del catarismo. La Weil condivideva il rifiuto dei bons òmes del Vecchio Testamento; riteneva il catarismo come l’ultima espressione viva dell’antichità preromana e sosteneva che, prima dell’espansione dell’Impero, ci fosse stata una continuità di pensiero tra il Mediterraneo e il Vicino Oriente. Platone era stato la massima espressione di quel pensiero. Gli Gnostici, i Manichei, i Catari, per la Weil, sembrano i soli a essergli rimasti veramente fedeli, in loro quella sapienza non è più filosofia ma religione. L’esigenza di purezza condusse all’eresia catara e al rifiuto della forza; una forza generatrice del male e guastatrice di tutto ciò che veniva in contatto con essa.
C’è un evento storico particolare legato al catarismo in cui ti sei imbattuta durante le tue ricerche, che racchiude il senso di questo movimento ereticale?
Più che a un evento, mi viene da pensare a una parola: paratge, un termine con molte sfumature che riassume in sé i principi occitani diffusi dai trovatori nel resto d’Europa. Anne Brenon prova a spiegarla con nobiltà interiore, generosità, senso di uguaglianza, insieme di valori da difendere a costo della vita perché, senza di essi, vivere non avrebbe senso. Paratge è anche una delle parole più ricorrenti nella seconda parte de “La Canso” (Chanson de la Croisade contre les hérétiques d’Albigeois ou Cathares). Paratge come senso di appartenenza, un senso comune che va oltre le vite dei singoli individui.
Fino a qualche anno fa, se pensavo al catarismo, pensavo all’Occitania, agli eventi della Crociata albigese, al coraggio dei faydits, i ribelli della Montagna Nera, al lungo assedio e la caduta di Montségur, alla grotta di Lombrives nei pressi di Tarascon sur Ariège, insomma, a luoghi e fatti legati a sofferenza e distruzione.
Oggi penso al nostro territorio, alle sei Chiese catare: Concorezzo, Desenzano, Mantova-Bagnolo, Vicenza, Firenze, attestata fin dal 1173 e Orvieto-Viterbo. Penso a una fitta rete di protezione che va ben oltre le stesse chiese e si muove al ritmo degli scontri tra guelfi e ghibellini, con una sorta di migrazione verso luoghi più sicuri, dove provare a ricostituire un’entità non solo religiosa ma anche sociale. Un esodo che si estende da Nord a Sud dell’Italia, fino alla Sicilia e forse, chissà, anche oltre. Per questo ho scelto di fondere la croce occitana e il giglio di Fiorenza sulla copertina del libro, simboli di due comunità distanti ma unite da un filo invisibile.
Quando ho iniziato a scrivere “Arpaïs”, temevo che il suo viaggio potesse apparire improbabile; oggi posso dire che questa “mobilità” di individui era viva già prima della Crociata albigese. Le fughe dopo gli eventi che insanguinarono l’Occitania, furono viaggi verso località con le quali, da tempo, vi era un legame. Insomma, erano comunità solidali tra loro. Basta pensare alla lettera inviata da Cremona e recapitata a Montségur, in pieno assedio; segno di una fitta rete di contatti e sostegno. Certo, c’erano divergenze di opinioni, anche in materia teologica, ma il senso di unione era molto forte. La corrispondenza tra Arpaïs e due personaggi del romanzo, oltre a creare una sorta di storia parallela, vuole evidenziare proprio questo aspetto ma, soprattutto, vuole parlare di una parte meno cruenta, fatta di vita reale e non solo di “mito cataro”.
La repressione della Santa Chiesa contro i catari fu particolarmente dura, tu ne racconti diversi episodi nei tuoi libri. Perché ci fu così tanta violenza contro di loro rispetto ad altri movimenti sorti negli stessi secoli?
Perché, mai, il catarismo avrebbe potuto essere assimilato all’interno della Chiesa di Roma. I bons òmes accusavano la Chiesa e il suo clero di aver rinunciato alla Chiesa primitiva, di aver tradito l’insegnamento di Cristo e di essersi fatti corrompere dal mondo. Rifiutavano l’Antico Testamento, il Battesimo del Battista, l’Eucarestia, la Trinità, assimilavano la figura di Mosè a uno degli emissari di Satana. Non vi era, in nessun modo, possibilità di incontro né di soluzione a una divergenza teologica così forte.
La reazione della Chiesa all’eresia diciamo “di casa nostra” fu meno fulminea rispetto a quella nel Sud della Francia. Se contro gli Albigesi il papa aveva avuto il sostegno del re di Parigi, non ottenne lo stesso supporto dalle città italiane, neppure da quelle filopapali, almeno non subito. I Comuni non accettavano le intromissioni del clero nelle faccende interne e, spesso, si rifiutavano di obbedire agli inquisitori. Alle minacce dei polemisti cattolici, i catari italiani, protetti dalle istituzioni comunali, ebbero la possibilità di rispondere con trattati teologici come il Liber de duobus principiis di Giovanni di Lugio.
I duecento catari giustiziati nel rogo dell’Arena di Verona il 13 febbraio 1278, furono il segnale che qualcosa era cambiato. Il papa, di nuovo, chiese l’intervento al re di Parigi, questa volta contro gli eredi dell’imperatore Federico II.
I movimenti spirituali sorti per reazione al potere materiale ostentato dal clero, condannavano la Chiesa per aver perso la via maestra, ma non rinnegavano il suo ruolo.
La Chiesa ne comprese il grande potenziale e li riassorbì al suo interno per potersene servire. Basta pensare ai Domenicani, nati proprio dall’opera di Domenico di Guzman che, in Occitania, imitò la condotta dei perfetti per riportare gli infedeli in seno alla Chiesa.
Potremmo dire che maggiore è il pericolo, più forte è la risposta e la Chiesa non fece attendere la sua. Il catarismo rivendicava un primato che, da sempre, Roma aveva negato persino alle altre chiese cristiane del Mediterraneo; non avrebbe certo accettato una chiesa che si definiva Vera Chiesa. L’unica possibilità era sradicare il problema all’origine. Per farlo si servì proprio di quei movimenti spirituali. Pensiamo ai Francescani che, a Firenze, finirono con il sostituire gli stessi Domenicani nel ruolo di inquisitori.
Proprio in merito ai Francescani e alla loro propaganda cattolica, possiamo ricondurre la figura di Umiliana de’ Cerchi, uno dei personaggi del romanzo. La storia di Umiliana ci dà un’idea della condizione della donna fiorentina che, nell’impossibilità di aderire a un ordine monastico, vive con altre donne sul modello delle “case catare”. Come sostiene Anna Benvenuti Papi, Umiliana, suo malgrado, divenne il simbolo dell’azione anti-catara e anti-ghibellina operata dai Francescani. La sua agiografia servì come modello di vita per le donne laiche che erano attratte dai modelli di vita evangelica proposti dal catarismo. La devozione nei suoi confronti portò ai Frati Minori donazioni e fondi necessari per innalzare la futura chiesa di Santa Croce.
Tuttavia, alla fine del XIII sec, i timori per una recrudescenza dell’eresia erano tutt’altro che assopiti. Il Crocefisso commissionato a Giotto da parte dei Domenicani e oggi esposto nella navata centrale di Santa Maria Novella, fa parte della propaganda anti-catara. Si tratta di un Cristo sofferente e drammaticamente “fisico”, scelta che vuole evidenziare la sua natura umana contro le tesi catare che ne negavano la fisicità.
Sempre in Santa Maria Novella, nell’antica sala capitolare di fianco al “Chiostro Verde” vi è un noto ciclo di affreschi di Andrea di Bonaiuto. La sala è oggi conosciuta con il nome di “Cappellone degli Spagnoli”. Il ciclo di dipinti venne realizzato tra il 1365 e il 1367, quasi un secolo dopo gli eventi del romanzo. L’ordine domenicano viene rappresentato nel suo ruolo di sostenitore e difensore della Chiesa. Gli affreschi ritraggono Pietro da Verona mentre confuta i precetti degli eretici. Ai suoi piedi i cani (Domenicani) scacciano i lupi (eretici). Oltre alla storia del santo, vengono raffigurati la Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo per ribadire la posizione della chiesa contro gli errori dell’eresia.
Non di minore importanza, è l’affresco sulla parete della Loggia del Bigallo, dove viene rappresentato Pietro da Verona nell’atto di scacciare un cavallo nero imbizzarrito (Satana) che cerca di travolgere la folla accorsa ad assistere ai suoi sermoni.
Mi auguro di avervi dato qualche dritta per una visita diversa di Firenze. Di sassolini ce ne sono molti altri, adesso sta a voi trovarli…
Grazie mille Sabrina per questa intervista così appassionata. Traspare nelle parole che ci lasci il grande amore per questo periodo storico e questo popolo che ha sofferto molto. Di seguito lasciamo ai nostri lettori i riferimenti del tuo nuovo romanzo.
L’Araldo della Terza Parte
1244. Arpaïs ha solo tredici anni quando fugge dalle fiamme di Montségur. Con sé porta un antico manoscritto: l’Interrogatio Iohannis, memoria e speranza del suo popolo. Sulle rotte dei pellegrini e dei mercatanti, un lungo viaggio ha inizio; dall’Occitania fino a Fiorenza, dove tra i gigli bianchi si annidano covi di vipere e infuria il morbo dell’eresia. Arpaïs imparerà a vivere tra quelle mura, imparerà a temerle e ad amarle, come imparerà a temere e ad amare gli abitanti di quella città che ha il nome di un fiore, ma che dai suoi stimi secerne odio e rancore. Mentre le lotte tra guelfi e ghibellini imperversano e il papato complotta per annientare l’Anticristo, il canto del lupo si leva sopra il clangore delle spade, affinché la mano di una bambina possa incidere la verità sulle pagine del tempo. 1321. A Villerouge-Termenès, dal rogo dell’ultimo cataro, si leva una profezia: “Tra settecento anni, questo lauro rifiorirà”. 1939. Presso la Biblioteca di Firenze il padre domenicano Antoine Dondaine riesce a decifrare un’iscrizione crittografata su un codice pergamenaceo e scopre che si tratta di un testo cataro rimasto celato per secoli. 2021. Il conto alla rovescia ha inizio.
Editore : Ali Ribelli Edizioni (20 aprile 2021)
Lingua : Italiano
Copertina flessibile : 794 pagine
ISBN-10 : 8833468216
ISBN-13 : 978-8833468211
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