Articolo a cura di Laura Pitzalis
“Ho passato tutta la vita a provare” – Edouard Manet
Artista libero e anticonformista, Edouard Manet fu il protagonista di una rivoluzione pittorica di enorme portata. Pittore solitario e fuori dal coro, non aderì a nessun movimento preferendo seguire un suo stile particolare e innovativo che diede vita all’arte moderna. Spesso è confuso con il quasi omonimo Monet ma anche se entrambi sono stati, ognuno a suo modo, rivoluzionari, la loro arte è assolutamente distinguibile e riconoscibile.
“… non mi dispiacerebbe di poter leggere finalmente, mentre sono ancora vivo, il meraviglioso articolo che mi dedicherete non appena sarò morto”.
Manet inviò queste poche righe, colme di amara ironia, al critico Albert Wolff che accolse molto freddamente e senza nessun entusiasmo il suo quadro “Il bar delle Folies-Bergeres” che fu, finalmente dopo tanti rifiuti, censure e critiche ai suoi precedenti dipinti, ammessa al Salon ufficiale ottenendo un enorme successo. Righe che, senza ombra di dubbio, potrebbero essere una sorta di emblema per questo grande pittore.
Il suo, però, non fu un caso isolato: siamo in un periodo in bilico tra due epoche storiche, dove il clima conformista e tradizionale del Secondo Impero nella scalpitante Parigi, funge da scoglio contro il quale vanno a cozzare tutti, o quasi, i più grandi pittori del momento.
Manet apre le danze
Fu lui che, per primo, rompendo gli schemi ormai logori, provocò la tempesta che doveva aprire la strada all’impressionismo, anche se non perse mai occasione per sottolineare quanto la sua arte fosse diversa da quella dei giovani impressionisti. Eppure se non ci fosse stato Manet, forse l’impressionismo non sarebbe mai nato.
Fu lui il primo a dipingere la realtà così come si presentava ai suoi occhi; fu lui che ripudiò l’uso tradizionale del chiaroscuro e della prospettiva.
Non partecipò mai a nessuna mostra con gli altri artisti, anzi all’inizio era infastidito dal paragone tra lui e Monet, uno dei fondatori di questo movimento, quell’artista emergente con un nome tanto simile al suo. Eppure uno dei suoi più bei dipinti ritrae proprio Monet, intento a dipingere nel suo atelier galleggiante: “Monet che dipinge sulla sua barca”, 1874. Questo perché divenne amico suo e degli impressionisti Degas, Renoir, Sisley, Cézanne e Pissarro, attraverso la pittrice Berthe Morisot, che introdusse l’artista nel gruppo e lo convinse a dedicarsi alla pittura en-plein-air.
Manet amava i maestri del passato ma il suo linguaggio non poteva che essere un linguaggio moderno. Si forma alla scuola classicista e le sue opere mostrano il retaggio di questa scuola, ma lui è un rivoluzionario e vuole rappresentare le cose così come sono.
Dipingere la verità
“Io dipingo solo cose vere” diceva e riteneva fondamentale dipingere ciò che si vede attribuendo, quindi, all’arte il compito di rappresentare la società così come si presenta. Per questo non accetta la rigida postura con cui i modelli sono ritratti tradizionalmente, ma decide di dipingerli in pose quotidiane per ottenere una veduta più realistica. Le pose di Manet, infatti, mirano a non essere mai rigide o costruite e questo era una cosa totalmente innovativa per l’epoca.
Quadro dopo quadro, immagine dopo immagine, egli perseguiva la scoperta di quell’aspetto eroico che, come diceva Baudelaire, può essere ritrovato anche dietro una cravatta o un abito di tutti i giorni.
Affascinato dalla realtà quotidiana, Manet s’interessa alla veridicità del personaggio comune, anonimo e quest’aspetto lo troviamo anche quando dipinge episodi della Storia come nel quadro “Esecuzione dell’imperatore Massimiliano del Messico”, 1868.
I soldati che sparano alle vittime, mostrano la tranquillità e la naturalezza di chi sta partecipando a una gara di tiro al bersaglio in un lunapark. Uno dei soldati, rimasto fuori, sta controllando il caricatore del proprio fucile, perché qualcosa non va: impassibile e indifferente alla tragedia che si sta consumando a pochi passi da lui. Dietro il muro di cinta si affacciano alcuni spettatori, tra cui una donna, uno di essi ha le sembianze di un teschio. Nessuno di loro sembra tradire niente più che una semplice curiosità priva di emozioni …
In questo quadro manca la violenza di Goya, che Manet aveva avuto presente. Un quadro non celebrativo ma una riproduzione impietosa di un dato di fatto, che contribuì a infastidire la coscienza della buona borghesia parigina, non avvezza alla rappresentazione cruda, ma allo stesso tempo veritiera dei quadri di Manet.
I suoi numerosi viaggi in Italia, Olanda, Austria e Germania allargano i suoi orizzonti artistici. Lo studio delle opere di Giorgione, Tiziano, Goya, Velázquez,dei pittori olandesi del Seicento e in particolar modo delle stampe giapponesi, influenzeranno il suo stile: abbandonerà la simulazione tridimensionale sostituendola con la linea di contorno sul piano bidimensionale, ben evidente nel dipinto “Il pifferaio“, 1866, in cui la profondità del ritratto è resa per mezzo della piccola ombra dietro il piede sinistro del ragazzo.
Ha 28 anni quando il suo quadro “Guitarrero”, viene accettato al Salon del 1861, ottenendo un inatteso successo che sembra essere l’inizio di una sfolgorante carriera artistica.
Ma non fu così, perché l’anno dopo Manet presenta al Salon la sua opera “Le déjeuner sur l’herbe”, che è rifiutata con decisione. Ufficialmente perché non rispetta le regole accademiche, in verità perché è ritenuta scandalosa.
Per la prima volta un pittore rappresenta un nudo che non ha niente di allegorico e non rimanda di certo ai miti: due uomini chiacchierano con una donna nuda e sono rappresentati in abiti borghesi dell’epoca. Una scena contemporanea quindi, ed è facile intuire la conclusione di quella colazione. Uno dei vizi dell’uomo borghese è raffigurato in modo esplicito e si sa che a nessuna società piace guardarsi allo specchio.
L’opera è giudicata “sconveniente” da Napoleone III ma poté essere esposta nel Salon de Refusés, soprannominato anche il “Salone dei vinti o delle croste”, aperto quell’anno per la prima volta, grazie a una delibera del tutto inaspettata dello stesso Napoleone III, e dove potevano essere esposte le opere rifiutate dal Salon ufficiale.
L’effetto è dirompente: gli spettatori sono indignati e offesi.
Scrive Antonin Proust:
“Il pubblico è stato impietoso. Rideva dinanzi a quei capolavori. I mariti portavano le mogli al ponte dell’Alma. Tutti dovevano offrire a se stessi e ai loro cari quest’occasione rara di ridere a crepapelle”.
Ci ritenta due anni dopo, 1865, presentando al Salon un’altra opera: Olympia,1863, e … indovinate un po’? Anche questo quadro destò così tanto scalpore da rendere l’artista “persona non gradita” al Salon, che rifiuterà, nel 1866, le sue opere e, per un po’ di tempo, indusse Manet al ritiro a vita privata per i continui insulti ricevuti.
“Il trionfo della volgarità” la definirono i critici.
Cosa provocò questo polverone?
Il nudo, definito osceno, della cortigiana rappresentata, considerato una profanazione dei nobili modelli del passato dove la nudità femminile celebrava ed esaltava la perfezione della donna, idealizzandola come divinità o figura mitologica.
In effetti, Manet rappresentò in modo “brutale” la realtà parigina di quel periodo, che contava circa cinquemila prostitute registrate e oltre trentamila non registrate.
Ma, allora, perché la giuria ritenne il quadro idoneo per partecipare all’esposizione se poi lo censurò, sistemandolo, dopo pochi giorni, a un’altezza tale da renderlo poco visibile al pubblico in sala?
Si può ipotizzare che in un primo momento fosse visto come una versione moderna della “Venere di Urbino” di Tiziano. In effetti, Manet si era ispirato a questo quadro riprendendo la stessa posizione della donna, gli stessi colori, l’ambientazione, la collocazione dell’animale domestico ai piedi del letto, ma … ci sono differenze sostanziali che sono poi quelle che suscitarono scandalo.
Prima di tutto l’animale, che non è il cane ma un gatto e per di più nero, in arte simbolo di sessualità immorale. Poi il nastrino nero che allude al legame con la prostituzione. E ancora la donna ritratta con un fisico molto comune, lontana dall’eleganza dei lineamenti classici: c’è un accenno di doppio mento, gambe sproporzionate, seni piccoli e sguardo di sufficienza, algido, senza intenzione di sedurre nonostante il corpo nudo.
Nonostante lo scandalo questo quadro emoziona tantissimo i giovani pittori del periodo: Cézanne renderà omaggio alla “scandalosa Olympia” con una sua personale versione del quadro.
Solo a morte avvenuta si alzerà un coro unanime di riconoscimenti. Ed è significativo che proprio dagli amici pittori, Monet e la sua cerchia, e non dagli scrittori o dai potenti, sia stata promossa la sottoscrizione per l’ “Olympia” che, entrando al Louvre, consacrò non l’ufficialità ma l’universalità dell’opera di Manet.
Il rapporto con i critici
Il rapporto di Manet con i critici d’arte del periodo, non fu mai idilliaco e prova ne è un episodio che avvenne nel 1870 e che mette in evidenza il carattere non certo facile del pittore: schiaffeggia il critico Louis Edmond Duranty per un commento poco lusinghiero sulle sue opere. Il critico decide di sfidarlo a duello e i due s’incontrano all’alba nella foresta di Saint-Germain. I due uomini, che non avevano mai preso in mano una spada in vita loro, si scagliarono l’uno contro l’altro con furia, manovrando le armi come cavatappi. La sfida termina con una ferita superficiale sul petto di Duranty e una colossale bevuta al Guerbois per festeggiare la riconciliazione.
Oltre ai critici che denigravano le sue opere, Manet ebbe anche dei sostenitori che capivano l’innovazione della sua arte: le voci di Baudelaire, Mallarmé e Zola non tardarono ad alzarsi in sua difesa anche dalle colonne delle più agguerrite gazzette parigine.
“C’è un gran numero di artisti” scriveva indignato Zola all’indomani di un ennesimo rifiuto da parte del Salon, “che oggi vengono considerati grandi e pagati fior di quattrini, ma io non darei un quadro di Manet per tutti i loro quadri. Verrà il giorno in cui non rimarrà di essi una sola opera, mentre rimarranno quelle di Manet”.
Della stessa opinione di Zola fu un celebre baritono parigino, Jean-Baptiste Faure, che fece buona scorta dei quadri di Manet: 68 opere, inclusi dipinti famosi come “Il suonatore di flauto” e “Musica nel Giardino delle Tuileries”.
Infine giunsero anche i riconoscimenti ufficiali, pochi e soprattutto per merito dell’amico Antonin Proust, quando però il pittore, colpito da malattia, stava per concludere la sua parabola: nel 1881 è insignito della “Legion d’Onore” dalla Repubblica Francese e premiato presso il Salon.
Manet contrasse la sifilide ma fu anche tormentato da forme reumatiche non curate, contratte a quarant’anni o, secondo alcuni, in gioventù quando venne imbarcato su una nave dai genitori per il suo rifiuto ad assecondarne le volontà.
Nonostante le sofferenze fisiche, è proprio in questo periodo che dipinge una delle tele più belle, il “Bar aux Folies-Bergère”, in cui utilizza uno stile pittorico simile a quello di Monet, distinguendosi, però, per l’uso del colore nero.
Tra le luci e lo scintillio di bottiglie e bicchieri, che si moltiplicano nella magica fuga degli specchi, è lo sguardo della ragazza, immobile al bancone, che ci attrae. Occhi che esprimono malinconia e tristezza: è la malinconia degli oceani lontani, che il pittore conobbe da giovane a bordo della nave da carico “La Guadeloupe”?; è la malinconia e la tristezza di un’esistenza contrastata, anche se viva e feconda, che il pittore sente giorno dopo giorno sfuggirgli?; o forse è il presentimento della morte?
Questo fu l’ultimo quadro che espose al Salon, con grande successo, nel 1882. Dopo, colpito da atassia e costretto all’immobilità, dipinse solo nature morte.
Negli ultimi anni di vita la malattia gli causò forti dolori e una parziale paralisi e il 6 aprile 1883, per sua volontà e nonostante il parere negativo dell’amico dottor Gachet, gli venne amputata la gamba in casa, sul grande tavolo del salotto, dopo esser stato cloroformizzato.
Edouard Manet muore, dopo una lunga agonia, il 30 aprile 1883 all’età di 51 anni.
Il corteo funebre, avviato verso il cimitero di Passy, era composto da una folla di pittori, scrittori, rappresentanti di governo, e da un folto gruppo di donne. C’era anche un picchetto d’onore dell’esercito e, appuntato sopra un cuscino, il nastro della Legion d’Onore: una messa in scena perfetta, un’evidente volontà di rimediare.
E fu a questo punto che, giunti tra le lapidi bianche, Degas recitò il “mea culpa”di un’intera società:
“Era più grande di quanto pensassimo”
FONTI
L’opera pittorica di Edouard Manet – Classici dell’Arte- Rizzoli Editore, Milano – 1967
https://www.sulromanzo.it/blog/il-segreto-di-manet-cosa-accade-quando-si-racconta-la-verita
https://www.geometriefluide.com/pagina.asp?cat=manet
https://biografieonline.it/biografia-manet