Articolo a cura di Claudio Bedin
“Can traditor, nemico di dio, brutto becho fotuo”.
Sono le parole rivolte al suo aguzzino che lo stava orrendamente torturando da Marcantonio Bragadin, in fin di vita. Senza ombra di dubbio uno dei più grandi Eroi della Serenissima.
Un personaggio che è conosciuto più per la sua tragica fine e il crudele supplizio, che per quanto aveva fatto nei suoi 48 anni di vita.
Nacque infatti a Venezia, come oggi: il 21 aprile 1523. Ma non ricorderò la sua biografia, che facilmente si trova nel web. Ancora della sua fine, con una rapida sintesi di quel che successe.
La Guerra di Cipro
Nominato nel 1569 rettore (o Governatore, perché così sempre lo chiama, senza mai citarlo, la bravissima Maria Grazia Siliato nel suo – ahinoi – introvabile “L’Assedio”) di Famagosta, si trovò subito impegnato nella cosiddetta “Guerra di Cipro”.
Ai primi di luglio del 1570, i Turchi, al comando del “Serdar” Lala Mustafà Pascià, sbarcarono nell’isola, senza che i Veneziani li contrastassero. Il luogotenente del regno, Nicolò Dandolo, preferì aspettarli nella capitale Nicosia, che era protetta da solide mura. Ma nel giro di un solo mese e mezzo la città cadde e ne seguì un massacro: migliaia di abitanti furono portati via come schiavi.
La testa del Dandolo e degli altri dignitari veneziani venne inviata a Famagosta e consegnata a Marcantonio Bragadin, come monito per la fortezza dove risiedeva la più grande guarnigione della Serenissima. Dal 22 agosto 1570 ha inizio l’assedio di Famagosta. Durerà più di un anno.
L’assedio di Famagosta
Sul numero degli attaccanti le fonti divergono, si va comunque da un minimo di 70mila a 150mila e oltre; a difendere la città non più di 8/9mila soldati, compresi i fanti raccogliticci della città e del contado.
La resistenza degli assediati andò oltre ogni ottimistica previsione, data la disparità delle forze in campo, la scarsità degli aiuti dalla madre patria e la preparazione dell’esercito assediante; i turchi applicarono la stessa tattica dell’assedio a Nicosia, scavando un’innumerevole serie di gallerie verso le mura e al di sotto di esse, ponendo cariche esplosive per aprirsi una breccia. Con grandi e continui cannoneggiamenti, grazie ai 1.500 cannoni di cui disponevano.
Il 1° agosto del 1571, finiti i viveri e le munizioni, Bragadin fu costretto ad accettare le offerte di resa del comandante ottomano. Questi, ignorando le misere condizioni degli assediati e preoccupato per le gravi perdite subite, offrì ai veneziani patti insolitamente generosi e onorevoli, garantiti dal sigillo d’oro del Sultano: se si fossero arresi, tutti avrebbero avuto salvi vita e averi, la popolazione rispettata, chi lo avesse chiesto sarebbe stato trasferito a Creta, e sarebbero stati elargiti onori militari per i vinti.
Ci sono dei resoconti sui dialoghi fra il Governatore e i suoi ufficiali, ne riporto un paio. Qui col capitano Lorenzo Tiepolo, che gli chiedeva cosa sarebbe successo se il comandante turco non avesse rispettato i patti di resa:
“Se poi questo nobile sentimento sarà tradito da colui che proprio in questo istante ci sta inviando i suoi parlamentari, allora che il fango della vergogna gli ricada sulla testa, e che il suo nome sia cancellato per sempre dalla storia millenaria degli uomini!”
E, parlando del nemico che li assediava:
“Noi abbiamo un po’ perduto la memoria della nostre radici, mentre loro sono sempre stati rocciosamente fedeli a se stessi. Se dunque non intendiamo subirne per sempre il ferreo dominio, saremo alla fine costretti a prenderli ad esempio…”
Il Governatore scriveva, nei mesi dell’assedio che “il sole accecava la vista, e armi e armature scottavano a toccarle”.
Marcantonio Bragadin non volle nemmeno ricevere il messaggero turco e, presagendo quanto sarebbe accaduto in caso di resa, respinse sdegnosamente l’offerta.
“No vogio gnanca vardàr sta domanda del turco!” Aveva perfino urlato una volta, esprimendosi nella musicale parlata natia, il giorno in cui Lala Mustafà gli aveva inviato un parlamentare con una prima proposta di tregua.
Ma la maggior parte degli ufficiali, dei soldati, la stessa popolazione invocavano la fine di una battaglia troppo impari. Famagosta, abbandonata dalla madrepatria, non aveva più alcuna speranza di salvezza: era necessario almeno salvare la vita ai superstiti e salvaguardare la popolazione civile. I rappresentanti dei cittadini, il vescovo, i magistrati, appositamente convocati, optavano tutti per la resa. I difensori validi furono ridotti a settecento (in media uno ogni 50-60 metri del perimetro difensivo).
Così il 4 agosto 1571, dopo mesi di assedio, i turchi entrarono a Famagosta. Come Bragadin, che non volle firmare l’atto di resa, aveva previsto, i turchi non rispettarono i patti. Durante le trattative per la resa dei difensori qualcosa andò storto. Lala Mustafà ebbe una reazione di insensata violenza, i negoziatori veneziani vennero fatti a pezzi, a Bragadin tagliate orecchie e naso.
Si discuterà a lungo, e ancora lo si fa, su questo improvviso tradimento dei patti.
Le motivazioni
Indubbiamente il Serdar era esasperato per la morte del figlio primogenito avvenuta in un assalto proprio pochi giorni prima; le grosse perdite subite (anche qui si va da alcune decine di migliaia fino a numeri più fantasiosi) e la mancata espugnazione della roccaforte dopo aver accertato l’esiguità numerica e il penoso stato dei veneziani. Fece massacrare tutti gli ufficiali e deportare come schiavi i soldati.
Il colonnello Martinengo, l’unico che aveva avuto il coraggio di accorrere il 24 gennaio 1571 in soccorso di Famagosta a capo di un piccolo manipolo di soldati, fu impiccato per tre volte. Marcantonio Bragadin scuoiato vivo dopo tredici giorni di atroci torture: “… e lentamente staccarono dal suo corpo vivo la pelle, spogliandola in un sol pezzo, a cominciare dalla nuca e dalla schiena, e poi il volto, le braccia, il torace e tutto il resto …”.
La pelle riempita di paglia venne esposta a guisa di trofeo sull’albero più alto della nave di Mustafà Pascià.
Meno attendibili, a mio parere (considerato il pietoso stato in cui si trovava: aveva la testa putrefatta per le orrende mutilazioni e che non erano state medicate, e gli veniva data pochissima acqua), i resoconti di testimoni oculari che dicono che il Bragadin continuò a insultare ferocemente i turchi fino all’ultimo:
“Perfido Turco, queste sono quelle promesse che sul tuo capo mi hai giurato, che segnasti nelle capitolazioni, scritte e segnate coll’imperiale suggello del tuo signore, e che hai confermato chiamando lddio in testimonio della tua fede? Qual lode e gloria porterai al tuo signore per una città priva di ogni aiuto, che con tante forze, con immensi soldati, coll’eccellente tuo valore non hai potuto espugnare, ma, ricevuta per dedizione, le hai praticate tutte le perfidie possibili? lddio voglia che questa voce possa risonare per l’universo tutto, e si faccia nota a tutti la perfidia de’Turchi”.
Qualche storico arriva persino a giustificare il turco: non mantenne la parola perché pochi giorni prima (forse la notte stessa della resa) i veneziani avrebbero fatto giustiziare circa 200 prigionieri musulmani.
Altre fonti citano la supposta cupidigia omosessuale di Mustafà Pascià nei confronti del paggio Antonio Querini, che il comandante turco voleva trattenere come ostaggio a garanzia delle navi su cui i veneziani si sarebbero imbarcati.
Lala Mustafà, in una lettera al suo superiore, Pertev Pascià, si discolpa ripetendo l’accusa al Bragadin di aver fatto uccidere i prigionieri turchi e affermando di aver temuto che il personale turco delle navi che dovevano trasportare i profughi a Creta potesse venir catturato dai veneziani e tratto in schiavitù.
Secondo un’altra versione turca, il massacro sarebbe dovuto al comportamento altezzoso del Bragadin. E, forse, fu proprio la sua fierezza a costargli la vita: lui, i comandanti e la scorta si presentarono alla tenda del Serdar nelle vesti e uniformi migliori; in particolare il Governatore indossò il mantello scarlatto, simbolo della sua posizione. Un contegno talmente orgoglioso che infastidì il turco.
Marcantonio Bragadin non era però un nobile: la sua era una famiglia patrizia di media condizione, il suo stato sociale e le consuetudini domestiche lo destinavano alle magistrature giudiziarie e alla carriera marinara.
Il padre era giunto al modesto ufficio di provveditore sopra Camere; il fratello maggiore Giovanni Alvise aveva servito nell’armata come sopracomito di galera prima di iniziare la trafila delle magistrature cittadine. Degli altri fratelli, Giovanni, morto nel 1558, era stato consigliere a Cipro; Andrea provveditore e poi ufficiale ai dazi; Antonio, infine, fu comandante di una delle sei galeazze veneziane che con la loro potenza di fuoco svolsero una parte decisiva nella battaglia di Lepanto.
Il sacrificio di Famagosta infatti non fu vano: i difensori logorarono le forze turche dando tempo alla Lega di accordarsi e muovere per Lepanto, battaglia che segnò l’inizio del declino turco. Quel giorno, i marinai e i soldati delle galee venete si mossero al motto di “Ricordiamoci di Famagosta!”
La pelle di Bragadin fu trafugata ne 1580 dall’arsenale di Costantinopoli da Girolamo Polidoro, portata a Venezia e conservata nella chiesa di San Gregorio per essere poi trasferita in quella dei Santi Giovanni e Paolo (“San Zanipolo per i veneziani!) dove si trova ancora oggi.
Ma di questo episodio parleremo in una prossima puntata….