È tempo, per noi di Thriller Storici e Dintorni, di riprendere le nostre interviste agli autori.
Oggi abbiamo ospite Patrizia Torsini che ci permette di fare un collegamento con i nostri, oramai consueti, accaddeoggi.
L’11 marzo del 1818, veniva pubblicato per la prima volta, in forma anonima, Frankestein, di cui solo successivamente si conobbe il nome dell’autirice: Mary Shelley.
Vi starete chiedendo “cosa c’entra tutto ciò con l’autrice ospite?”
Leggete l’intervista e lo scoprirete, ma prima andiamo a conoscerla meglio.
Figlia di toscani, sono cresciuta con la passione della lettura e della musica. Le mie prime esperienze di scrittura sono state delle poesie nell’adolescenza. Esperimento mai più ripetuto. Poi ho scritto qualche racconto, giusto per mettermi alla prova. La vera svolta è stata quella di far parte, oramai da undici anni, di un affiatato gruppo di lettura che mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato a notare particolari che prima mi erano sfuggiti e a costruire uno stile scarno, immediato, adatto ai dialoghi e pertanto simile alle sceneggiature.
Nel 2015 ho pubblicato la mia opera prima “Acqua alla gola”, un romanzo d’azione ed anche un thriller ambientato nel mondo del kayak. Il secondo libro,“Killer on the road”, arriva nel 2017. Noir ambientato nel territorio pratese, ma anche in altri luoghi della Toscana con qualche puntata all’estero. Finalmente, nel luglio 2020, esce “L’importanza di chiamarsi Bloody Mary”, degna conclusione di quella che definisco semitrilogia. Ognuno di questi libri sta in piedi da solo, ma ognuno di loro è legato mani e piedi agli altri due in una sequenza temporale che nell’ultimo libro si arricchisce di momenti mistery per la presenza di fantasmi di personaggi storici.
Che genere di scrittrice è Patrizia Torsini?
Sono una scrittrice di noir, ma un po’ anomala. Mi spiego meglio: i thriller o noir che scrivo rispecchiano le numerose sfaccettature del mio carattere. Sono una persona contorta e poliedrica. Mi interessa tutto e da sempre è stato così. La curiosità culturale in genere, l’informazione mi interessano a 360°, il resto lo fa la buona memoria. Almeno fino ad ora. Spesso nella stesura di un libro mi sono affiorati ricordi di particolari vissuti o visti decenni fa e sono stati utilissimi per la costruzione della storia. La lettura compulsiva a cui sono abituata fin da bambina è stato senz’altro il mio cavallo di battaglia ed evidentemente tutti gli stili di scrittura che ho assorbito lungo il percorso fanno di me una scrittrice poco facile da catalogare. Difficilmente riesco ad essere breve nell’esprimermi. La sintesi, evidentemente, non è un dono che posseggo. La descrizione caratteriale dei personaggi e la loro caratterizzazione psicologica, invece, sono la cosa che mi riesce meglio. Difficilmente scrivo storie semplici ed amo, invece, inserire argomentazioni interessanti come l’arte, la musica, gli sport estremi, la storia e problematiche di tipo ambientale. Sono tutti tasselli di un enorme mosaico e sono tutti importanti, dal primo all’ultimo. Ognuno di loro ha un posto nella narrazione ed è necessario al suo completamento. Ogni particolare è legato all’altro con un filo leggero, come una ragnatela, ma il difficile è fare in modo che quest’ultima riesca a catturare ed imprigionare il lettore come una trappola. Fino ad ora spero di esserci riuscita.
Il tuo ultimo romanzo “L’importanza di chiamarsi Bloody Mary”, edito da Jolly Roger, è un thriller contemporaneo con riferimenti storici, soprattutto su due importanti personaggi femminili del passato. Ci vuoi parlare di loro?
I personaggi femminili in questione sono Mary Shelley e Bianca Cappello. Di solito non amo spoilerare raccontando troppo delle storie che scrivo. Ma in questo caso sono costretta a svelare qualcosa, senza oltrepassare limiti oltre i quali si fa danno.
Come saprete Mary Shelley è l’autrice di “Frankenstein” e moglie di Percy Bissey Shelley, poeta ed amico di Lord Byron. Donna notevole, emancipata ed intellettivamente cresciuta in un ambiente stimolante al punto da poter produrre un capolavoro come quello del nuovo Prometeo. La sua storia personale fu segnata da lutti e sofferenze. A cominciare dalla morte della madre che avvenne nel darla alla luce. Pertanto non ebbe modo di conoscerla e questo innato senso di colpa l’accompagnò per tutta la vita spronandola, forse, a volerle ridare vita attraverso il suo personaggio: un mostro plasmato con resti umani a cui donare la scintilla dell’esistenza. Vi ricordo che “Franskenstein” fu pubblicato nel 1818 … solo una donna eccezionale come lei poteva partorire una storia del genere, così futuribile. Avanti anni luce, ancora rileggendolo ai giorni nostri.
Il personaggio di Bianca Cappello, invece, ha uno spessore diverso. Intanto dobbiamo tornare indietro di quasi due secoli e mezzo facendo fede alla data di nascita delle due donne. Quindi un mondo completamente diverso, come diverso era l’ambiente che frequentavano. Bianca proveniva da una famiglia nobile veneziana ed era ritenuta una ragazza molto bella e raffinata secondo i canoni di bellezza del tempo. Audace ed ambiziosa fuggì da Venezia sposando Pietro Bonaventuri con il quale si trasferì a Firenze. Qui ebbe modo di conoscere il Granduca Francesco I de’ Medici il quale rimase ammaliato dal suo fascino. Diventare amanti fu la logica conseguenza per due persone disinteressate al proprio consorte. Coronarono il loro sogno d’amore solo dopo essere divenuti entrambi vedovi. La moglie di Francesco, Giovanna d’Austria, ed il marito di Bianca perirono in circostanze dubbie e misteriose, ma entrambe utili al proseguimento del rapporto fra i due, al punto da coronare la loro unione nel 1579. Unione di breve durata che fu interrotta nel 1587 dalla morte di entrambi dopo una cena alla villa di Poggio a Caiano e dopo undici giorni di agonia. Morte sospetta che faceva comodo al cardinale Ferdinando dei Medici, fratello di Francesco.
Bianca Cappello era una donna assetata di potere e visse momenti drammatici e torbidi. Sospetta assassina e sospetta vittima di un assassinio. Così diversa da Mary Shelley, agli antipodi del comportamento umano, come rappresentanti del bene e del male. E come tali nel mio libro appaiono in veste di fantasmi del passato.
Il romanzo, oltre ad affrontare i temi legati a questi due personaggi, non perde di vista i tuoi luoghi d’origine. Traspare la voglia di parlare della “tua” Toscana.
Certo, la Toscana è sempre nel mio cuore. Non solo perché mi ha dato i natali e ci vivo quasi da sempre, ma anche perché mi riconosco nell’animo spontaneo ed aperto dei miei avi, quelli che Curzio Malaparte, pratese adottato, definì “maledetti toscani”. Il territorio, così vario dall’entroterra al mare, dal nord degli Appennini e delle Apuane al sud della Maremma, propone angoli di bellezza e di varietà non comuni dove si nota la cura dell’ambiente. Siamo un popolo avvezzo alla presenza del “forestiero”, poiché il turismo è il nostro grande business. Le città d’arte sono il nostro patrimonio, ma le province non sono da meno e nei miei libri credo di rendere bene l’idea di quanta volontà ci sia di valorizzare questa terra. Anche se qualche volta succede, assurdamente, che gli stranieri siano più informati dei toscani sui tesori che ci stanno intorno.
Quanto è stata importante Mary Shelley nella tua formazione di scrittrice? Quanto ti ispiri alle sue opere?
In realtà mi sono avvicinata a questa scrittrice solo in tarda età. Sapevo certamente che era l’autrice di Frankenstein, ma non avevo mai approfondito meglio. Poi, quasi quattro anni fa, in occasione della presentazione del mio secondo libro “Killer on the road”, a Bagni di Lucca, ho conosciuto meglio i proprietari della libreria che mi ospitava. Sono una coppia di persone dedite alla cultura nelle sue sfaccettature più varie e appassionati ammiratori degli Shelley al punto tale da venerarli. Il nome della libreria, infatti, era “Shelley House”.
La loro conoscenza è stata per me come un colpo di fulmine intellettivo. Ci siamo piaciuti a prima vista e da allora Mary Shelley mi è entrata nel cuore. Sono stata autorizzata a parlare di loro, anche se in “L’importanza di chiamarsi Bloody Mary” i loro personaggi sono stati rivisitati.
Da allora ho raccolto moltissimo materiale sull’argomento. Il lavoro di ricerca, prima di cominciare la stesura del libro, è stato lungo, ma avvincente. Mi sono riletta Frankenstein in una favolosa edizione con testo a fronte: la pagina sinistra con il testo originale in inglese e la destra in italiano. Ma ho fatto altre scoperte: sto leggendo “L’ultimo uomo” sempre della stessa autrice. Un romanzo apocalittico ambientato nella fine del ventunesimo secolo. Il destino dell’umanità è segnato ed imperversa la peste. Testo sovversivo ed antesignano del genere fantascientifico. Pubblicato per la prima volta nel 1826 … ed ho detto tutto.
Che tipo di romanzo è quello gotico per te? Quali emozioni ti suscita?
Il romanzo gotico, come saprete, è il precursore del genere horror, ma in realtà è molto di più. Innanzi tutto di origine inglese e passando da Mary Shelley, a Polidori, A Bram Stoker, a Robert Luis Stevenson, a Edgar Allan Poe, a Lovecraft, a Oscar Wild … si arriva a Stephen King.
King, il pifferaio magico che mi ha trascinato per anni in questa letteratura di genere e che ha plasmato i miei gusti ed il mio stile. In fondo siamo quello che seguiamo e scriviamo quello che leggiamo.
E mi ha sempre eccitato il fascino delle tenebre, stranamente fin da piccola. Forse perché sono riuscita a capire subito, nonostante l’età, che il pericolo non veniva dalla fantasia, ma dalla realtà.
Il titolo del tuo romanzo riporta alla mente “L’importanza di chiamarsi Ernest” di Oscar Wilde. Il tuo vuole essere un omaggio a questo grande scrittore?
Esatto. Per uno scrittore come Oscar Wilde, autore di “Il ritratto di Dorian Grey”, sentivo il dovere di un ringraziamento, di un omaggio per tutta la sua opera e per il coraggio di essere quello che è stato: un uomo controcorrente che ha pagato le scelte della sua vita.
Cosa potevo scegliere di meglio se non il rimando alla sua piece teatrale più conosciuta? E ricordando Mary Shelley ed Oscar Wilde è venuto fuori: “L’importanza di chiamarsi Bloody Mary”. Titolo piuttosto lungo che nasconde una parte della storia che dovrete scoprire da soli leggendo. Quel Bloody Mary che si confonde fra un aperitivo famoso ed un fatto di sangue.
E con questa curiosità tutta da soddisfare, ci congediamo da Patrizia Torsini, che ringraziamo per essere stata con noi e averci raccontato del suo libro, di Bianca Cappello e di Mary Shelley. A voi lasciamo il riferimento al libro L’importanza di chiamarsi Bloody Mary
Trama
Quando la vita ti coglie di sorpresa, con strani eventi che sembrano inspiegabili, ti fai una domanda: “Sto sognando o sto diventando pazzo?” Questo è quello che si chiede uno dei protagonisti del libro, quando una domenica d’inverno non può credere ai propri occhi davanti al mare della Versilia visto da una vetta delle Apuane. Seguiranno altre stranezze, alcune spontanee, altre costruite. Ma, nel terzo millennio dove imperano tecnologia e apparenza, rimane impossibile credere che ci si possa innamorare di un fantasma. Nella vita reale, intanto, si susseguono le dipartite di quattro vecchietti, uno dietro all’altro, apparentemente morti di paura. E se tutto ciò non bastasse riaffiorano dal passato lembi di ricordi scomodi sollecitati dagli spettri di due personaggi storici femminili. La notte è dura da passare quando si ha un peso sulla coscienza e qualche scheletro nell’armadio…
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