A cura di Paola Milli
Intorno alla metà del XV secolo nel mondo occidentale fu introdotta dal tedesco Johannes Gutenberg la stampa a caratteri mobili.
Non era una novità perché in Asia esisteva fin dal 1041 grazie alla tecnica inventata dal cinese Bi Sheng.
La tecnica tipografica di Gutenberg consisteva nell’allineare i singoli caratteri in modo da formare una pagina, che veniva cosparsa di inchiostro e pressata su un foglio di carta.
In precedenza era utilizzata la xilografia: le matrici di stampa venivano ricavate da un unico pezzo di legno, che poteva essere impiegato solo per stampare sempre la stessa pagina.
I caratteri mobili, invece, potevano essere utilizzati più volte. Erano prodotti con una lega di piombo, antimonio e stagno che si raffreddava velocemente e resisteva alla pressione esercitata dalla stampa. La macchina usata, il torchio, derivava dalla pressa a vite usata per la produzione del vino: essa permetteva di applicare efficacemente e con pressione uniforme l’inchiostro sulla pagina.
Il primo testo stampato fu la Bibbia delle 42 linee realizzata da Gutenberg a Magonza tra il 1453 e il 1455. Sono due volumi in folio di 322 e 319 fogli, in totale 641 fogli, 1282 pagine. Riproduceva il testo della Vulgata, la bibbia latina tradotta da san Gerolamo nel V secolo, L’Antico Testamento occupava il primo volume e parte del secondo che conteneva anche il Nuovo Testamento. Gutenberg utilizzò tipi di carattere che imitavano la scrittura gotica, la più usata allora in Germania.
Quaranta copie furono stampate su pergamena e 140 su carta di canapa importata dall’Italia.
La stampa a caratteri mobili si diffuse in breve tempo fuori dalla Germania grazie a numerosi tipografi che emigrarono in altri Paesi.
Il primo libro stampato fuori della Germania fu realizzato in Italia, nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco ad opera dei tedeschi Conrad Schweynheym e Arnold Pannartz. Giunti tra il 1465 e il 1467, pubblicarono: un Donatus pro puerulis, una grammatica latina per bambini attualmente dispersa, il De oratore di Cicerone, il De civitate Dei di Sant’Agostino e tre opere di Lattanzio, tutti con una tiratura di 275 copie.
Il carattere utilizzato per quelle edizioni fu chiamato sublacense: le minuscole erano semigotiche, mentre le maiuscole si rifacevano alla scrittura epigrafica latina. I due tipografi li disegnarono rifacendosi ad antiche epigrafi romane e manoscritti di epoche precedenti.
Nello stesso periodo veniva impiantata la prima stamperia a Roma. Nel 1471 papa Paolo II fece riprodurre la bolla con cui istituiva il Giubileo del 1475. Questo fu il primo documento pontificio non manoscritto.
Nel 1470 Johannes Numeister, concittadino e allievo di Gutenberg, stampò a Foligno il De bello italico adversos Gothos, dell’umanista Leonardo Bruni e, nel1472, ancora a Foligno venne stampata la Divina Commedia. Sempre nel 1472 Jacopo da Fivizzano stampò nella sua città le Opere di Virgilio.
Nel 1469, a Venezia il governo della Serenissima concesse al tedesco Giovanni da Spira un privilegio di stampa per cinque anni. In breve tempo l’autorizzazione – considerata l’elevata domanda – fu estesa anche a tipografi non tedeschi. Il primo non tedesco ad avviare una stamperia a Venezia fu il francese Nicolas Jenson nel 1470. Pochi decenni dopo, nel 1500, nella città lagunare erano attivi 417 stampatori.
I libri stampati con la nuova tecnica tra il 1455 e il 1500 sono detti incunaboli o quattrocentine.
Il termine incunabolo, o incunabulo, deriva dal latino incunabŭla, plurale «fasce», derivato di cunae, «culla». Fu coniato da Bernhard von Mallinckrodt in un trattato sull’arte tipografica stampato a Colonia nel 1639 e assunse il significato bibliografico dal repertorio di Cornelius van Beughem, Incunabula typographiae sive Catalogus […] pubblicato ad Amsterdam nel 1688.
Sono detti paleotipi i libri stampati prima del 1470 e l’editio princeps di classici latini e greci o di esemplari in pergamena e illustrati.
I primi volumi a stampa sono caratterizzati da una grande somiglianza con i manoscritti: stessa impaginazione e identici disegni di carattere, decorazioni simili, mancanza del frontespizio. Solo il Calendario del Regiomontano, stampato nel 1476, ne possedeva uno.
Da un punto di vista filologico gli incunaboli sono considerati pezzi unici come i manoscritti.
Per l’antiquario il loro valore varia, tra l’altro, per la rarità, il prestigio dell’officina produttrice, lo stato di conservazione, la ricchezza di illustrazioni e ornamenti.
Gli incunaboli noti sono registrati e descritti in numerosi repertori. Tra quelli a carattere nazionale si può ricordare l’Indice generale degli incunaboli delle biblioteche italiane, curato dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.