Articolo a cura di Laura Pitzalis
Vi vorrei raccontare una storia di tanti anni fa, di una Sardegna che non c’è più. La storia di una comunità di minatori sardi in un piccolo e sconosciuto paese della Sardegna, Buggerru. Una storia di sfruttamento e disperazione, fatica e sofferenze per uomini, donne e bambini. Perché il lavoro in miniera non è un lavoro umano è una lotta tra la vita e la morte.
Una storia tragica che, purtroppo, ai diretti interessati non ha portato nulla ma che è entrata nella Storia: grazie al loro sacrificio si è costruita una società dove i lavoratori sono riconosciuti e rispettati, ma soprattutto nacque l’idea della solidarietà nazionale e sindacale.
A noi l’arduo compito di non tradire i nobili ideali e le aspirazioni di questi morti, in modo che quel tragico passato, impregnato di soprusi e di sfruttamento, non emerga nel presente.
Ci riusciremo?
Nell’immaginario collettivo se si nomina la Sardegna, si pensa al mare, alle esclusive località della Costa Smeralda, ai nuraghi, al “mirto” e a … “su porcheddu”.
C’è invece un’altra Sardegna, meno conosciuta, quella che oggi è racchiusa nell’importante Parco Geominerario Storico e Ambientale, nato per tutelare e valorizzare il grande patrimonio tecnico, scientifico e culturale rappresentato dalla millenaria epopea mineraria della Sardegna.
Per questo motivo nell’ottobre del 1997 l’UNESCO l’ha riconosciuto quale “Primo Parco della rete mondiale dei geositi-geoparchi”.
La storia mineraria dell’isola si perde nella notte dei tempi: Argyròphleps Nesos, Isola dalle vene d’argento, così era chiamata la Sardegna dagli antichi conquistatori.
Oltre settemila anni fa già si estraeva, lavorava e commerciava l’ossidiana del Monte Arci, pietra vulcanica nera e lucente, molto preziosa nell’antichità.
Poi vennero i fenici i cartaginesi e i romani che iniziarono a sfruttare intensamente i giacimenti costituiti da minerali composti di ossidi e solfuri di ferro, da rame, piombo e argento.
Nel medioevo i Pisani riscoprirono le vecchie miniere dei Romani e riavviarono le attività estrattive, soprattutto nella zona di Villa di Chiesa, l’odierna Iglesias. Queste entrarono poi in crisi con la dominazione spagnola, mentre la moderna impresa mineraria si svilupperà solo nella seconda metà del XIX secolo, quando il ferro servì all’appena nato Regno d’Italia, per avviare un lungo processo di modernizzazione e alla scoperta, nella Valle di Buggerru, dei più importanti giacimenti di calamina in Europa.
La calamina è un minerale di colore bianco spesso colorata dalle impurità in giallo, rosso, verde e azzurrino, con lucentezza vitrea. È un silicato basico di zinco e si trova mista a smithsonite (carbonato di zinco). Nei forni di calcinazione, dove si raggiungevano temperature di 900°C, venivano eliminate le impurità, ottenendo così polveri quasi pure del metallo.
L’uso dello zinco riguarda vasti campi d’applicazione dal settore automobilistico all’edilizia, dall’industria cosmetica a quella farmaceutica. Immaginatevi quindi quanto fossero ambiti questi giacimenti!
Nel 1870 la concessione all’estrazione di questo minerale fu data a una società francese, Societè Anonyme des mines de Malfidano, che operarono con una condotta che può essere tranquillamente definita colonialistica: sfruttavano il territorio ma i prodotti venivano portati fuori verso le industrie metallurgiche della Francia, andando a ingrossare i capitali stranieri e lasciando ai sardi poche briciole su cui scannarsi.
Comandavano quasi con un potere di vita e di morte, decidendo se, come, dove e quando assumere e licenziare un lavoratore, se concedere o no sussidi in denaro a una vedova o a un inabile al lavoro, costringendo gli operai a vivere una condizione di completa sottomissione. Si poteva ricevere un tozzo di pane un pezzo di formaggio e anche un po’ di vino, ma dovevano sapere che la loro vita diventava proprietà dei padroni che ne facevano quello che volevano, diventando così “damnatio ad metalla”, condannato alla miniera.
Ogni cosa apparteneva alla società francese: suoi i pozzi, le laverie, le officine, i magazzini; sue le case, il suolo, sul quale a nessuno era consentito costruire neppure la più povera delle baracche, piantare un albero o raccogliere legna per il focolare; suoi l’ospedale, le scuole, la chiesa, il cimitero.
I privilegiati, i dirigenti e gli impiegati di grado elevato, praticavano usi raffinati e conducevano una fervente vita mondana. Vivevano in una zona separata dal villaggio degli operai, in una villa rifinita ed elegante, situata all’interno di un parco curato da giardinieri appositamente assunti dalla società. Nelle occasioni di festa si respirava un clima tipicamente francese che ricordava la “belle epoque” e per questo che il borgo minerario veniva soprannominato “Petit Paris”.
Le case abitate dagli operai e dalle loro famiglie, spesso costruite da loro stessi, erano invece piccoli alloggi in muratura, cadenti e malsani, caratterizzati da ambienti fatiscenti, mancanza di pavimentazione, talvolta di finestre, scarsa pulizia. Le condizioni pessime di igiene erano evidenti, anche in misura maggiore, nei cameroni costruiti dalle società per i minatori scapoli, che vi dormivano in brande o anche in giacigli.
Il lavoro dei minatori si svolgeva in ambienti umidi, malsani, polverosi col rischio costante d’infortuni per crolli, esplosioni e cadute. Le menomazioni più gravi riguardavano gli arti superiori e gli occhi, causando spesso invalidità permanente. Nel profondo della terra bisognava creare delle correnti di ventilazione e negli ambienti più umidi insorgevano più frequentemente artrosi e reumatismi. Il frastuono delle macchine e le continue esplosioni provocavano una precoce sordità, mentre il trasporto di materiali e mezzi pesanti favorivano l’insorgere di ernie inguinali. Senza tralasciare le malattie professionali dovute alle polveri respirate nella miniera: la tubercolosi, la silicosi e saturnismo, grave malattia dovuta all’esposizione al piombo, causavano più vittime degli stessi incidenti.
In miniera non lavoravano solo gli uomini ma anche donne e bambini. Questi ultimi già all’età di undici/dodici anni potevano essere assunti: scalzi, infreddoliti dal gelo e fiaccati dalla calura, ammaccati e feriti dalle pietre, stanchi e dolenti dalla fatica, questi bambini lavoravano come gli adulti fino a dieci ore al giorno con un salario che era la metà di quello delle donne che, a loro volta, era meno della metà di quello degli uomini.
Le donne erano arruolate come cernitrici, un lavoro mal retribuito e particolarmente pesante che consisteva in una primaria lavorazione del minerale grezzo. Sul piazzale antistante all’apertura dei pozzi, sotto il sole cocente o la pioggia battente per dieci ore al giorno, dovevano spaccare, scegliere, grigliare e insaccare il minerale.
Donne di tutte le età, dalle giovani madri provate dal lavoro e dalle gravidanze, fino alle bambine ancora inconsapevoli della loro miserevole condizione. Molto spesso tra le cernitrici vi erano le vedove dei minatori caduti che venivano in questo modo risarcite per il mancato salario. Come gli uomini anche le donne subivano condizioni di lavoro inumane, oltre a ciò talvolta si trovavano a dover nascondere le gravidanze per paura di perdere il posto e per questo motivo non erano infrequenti gli aborti dovuti all’eccessiva fatica.
In un mondo in cui le condizioni di lavoro erano così dure, gli incidenti e le tragedie erano all’ordine del giorno ma in nessun caso fu mai addebitata alcuna responsabilità alla società mineraria.
Si sa che le difficili condizioni di vita e di lavoro, lo sfruttamento, la precarietà, alimentano malumori, ostilità, voglia di ribellione e di cambiamento, ma anche una progressiva maturazione politica. Fu per questo che nel 1881 fu indetta una prima clamorosa manifestazione di protesta da parte dei “galanzieri”.
I galanzieri erano marinai carlofortini che trasportavano via mare la galena o galanza, minerale di piombo, dalle miniere sino al porto di Carloforte, dove veniva immagazzinato in attesa di essere imbarcato sulle navi dirette nella Penisola. Questi entrarono in conflitto con la società mineraria per avere una paga migliore. Il fermo delle attività causò aspri contrasti e alla fine dopo dodici giorni di proteste ci furono diverse denunce e arresti. Coloro che avevano osato alzare la testa furono puniti. Ma non fu una protesta inutile perché questa richiesta di giustizia e questo coraggio contagiò anche i minatori formando una sufficiente coscienza sindacale che portò alla formazione delle “Leghe” e ai primi scioperi.
Il 2 settembre 1904 il direttore della miniera di Buggerru, l’ingegnere greco Achille Georgiades, diramò una circolare con la quale stabiliva il ritorno all’orario invernale con un mese di anticipo e la riduzione di un’ora della pausa tra il turno del mattino e quello del pomeriggio. Chi non avesse rispettato l’ordine sarebbe stato licenziato.
All’una di quel giorno nessuno si presentò al lavoro. Era arrivato il momento in cui il valore della dignità riuscì a superare il bisogno di avere un lavoro a qualunque costo e a fronte di qualsiasi umiliazione. Era arrivato il momento di dire basta.
I pozzi, le laverie, le officine, i magazzini, restarono deserti. I lavoratori, in una massa che si andava ingrossando via via, si diressero verso la direzione della miniera e lì si riunirono.
L’ing. Georgiades, temendo disordini, chiamò il prefetto di Cagliari invocando l’intervento dell’esercito. Quella sera giunse a Buggerru, allo scopo di mediare fra le parti, il capo della lega operaia, Giuseppe Cavallera. Il direttore trattò con la commissione operaia, ma in realtà cercò solo di prendere tempo in attesa dell’arrivo dell’esercito che giunse, infine, nel pomeriggio di domenica 4 settembre.
Gli animi dei minatori s’infiammarono e, dopo qualche spinta e qualche sasso, l’esercitò aprì il fuoco e sparò ad altezza d’uomo. I minatori Felice Littera e Salvatore Montixi morirono all’istante, Giustino Pittau dopo quindici giorni in ospedale. Tantissimi furono i feriti. Un quarto minatore morì dopo venti giorni, ma non si riuscì mai a collegare quella morte alla sparatoria.
All’episodio fa riferimento anche Giuseppe Dessì, nel capolavoro Paese d’ombre, in un passaggio in cui viene sottolineato il tentativo da parte delle autorità di cancellare dalla memoria collettiva il sanguinoso evento.
I sassi ormai cadevano fitti quando, nel panico di un istante che sarebbe difficile scomporre nella sua fulminea successione cronologica, qualcuno, rimasto sempre sconosciuto, diede un ordine secco ed energico che i soldati eseguirono automaticamente. Come un solo uomo si fermarono, puntarono a terra il calcio dei fucili, inastarono la baionetta; poi con un gesto rapido, sicuro, fecero scorrere il carrello di caricamento, misero la pallottola in canna. Non tutti lasciarono partire il colpo, ma molti lo fecero e furono soddisfatti del loro gesto. Quella cartuccia li avrebbe salvati. Più tardi, durante l’inchiesta, risultò che i fucili avevano sparato da soli e che le autorità ignoravano che i soldati avessero le giberne piene di cartucce.
Ancora una volta la società mineraria ne uscì impunita, non solo: poiché la responsabilità dei fatti “doveva” essere attribuita necessariamente ai minatori, durissima fu la reazione delle autorità . Decine di scioperanti vengono accusati di sedizione e arrestati, incatenati alla stregua dei più pericolosi delinquenti e fatti sfilare, come monito, per le vie di Iglesias tra due ali di carabinieri a piedi e a cavallo.
Oblio e ridimensionamento dei fatti non ebbero però la meglio come lo sforzo per mettere le cose a tacere e la notizia dell’eccidio valica il Tirreno, provocando fortissime reazioni.
L’ 11 settembre a Milano, in segno di protesta, la Camera del lavoro approvò infatti una mozione per lo sciopero generale da organizzare in tutta Italia entro otto giorni. Qualche giorno dopo, però, nella siciliana Castelluzzo si verificò un altro eccidio, con i carabinieri che aprirono il fuoco durante una manifestazione di contadini. L’indignazione raggiunse così livelli altissimi. La Camera del Lavoro di Milano proclamò allora il primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia e d’Europa, protrattosi dal 16 al 21 settembre e al quale aderirono i lavoratori italiani di tutte le categorie.
A seguito di questo fatto venne costituita la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla condizione degli operai delle miniere della Sardegna, i cui atti furono resi pubblici nel 1911.
I minatori di Buggerru avevano alzato la testa e hanno cambiato la storia. Non gli era permesso, ma lo fecero lo stesso.
Fonti
La Valle della Calamina – Roberto Fadda – ed. Nuove Grafiche Puddu
https://www.contusu.it/la-valle-della-calamina/
https://tratti.org/2010/01/15/storia-mineraria-della-sardegna/
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_mineraria_della_Sardegna
http://www.regione.sardegna.it/messaggero/2004_ottobre_32.pdf