Trama
La storia si svolge su tre piani temporali. La prima parte è ambientata nei primi anni del 1400, durante le scorribande di Facino Cane e delle sue “belve”. La seconda descrive il periodo della ricerca dell’oro. Siamo nell’800. La terza, ai giorni nostri, narra di una vicenda di paese. Piccole incomprensioni e invidie che pian piano si ingigantiscono, sino a portare i vari personaggi a scambi di azioni dalla crescente cattiveria.
Recensione a cura di Laura Pitzalis
Tutti conoscono la storia del “pane del boia” e la superstizione che mai il pane deve essere messo capovolto a tavola. Questo perché nel XV secolo i fornai francesi, reputando la figura del boia spregevole e ignobile per il raccapricciante lavoro che svolgeva, si rifiutarono di vendergli il pane, alimento allora principale e più sostanzioso per i poveri. Per evitare questo, re Carlo VII emanò un editto costringendo, pena la condanna a morte, i fornai a desistere. Costretti dal re, escogitarono un espediente: decisero che il pane sarebbe stato prodotto con ingredienti di scarto e per riconoscerlo lo mettevano capovolto. Da allora il pane capovolto indica disprezzo, portatore di sventura. Ed è questa espressione figurata che Marco Marengo usa nel suo libro, perché, non si parla di boia né di pane né di esecuzioni a morte. Il pane capovolto è usato come metafora, come simbolo di spregio e di morte. (A tal proposito si può leggere un interessante articolo sulla figura del boia cliccando qui)
Quel pane alla rovescia e quel corpo senza vita gli riportano alla memoria antiche usanze del tempo in cui sotto il grande olmo in piazza veniva amministrata la giustizia.
Un romanzo che racchiude più mondi, quello storico, quello leggendario, quello fantasy, e quello del quotidiano reale. Mondi che Marengo intreccia tra loro senza un’apparente continuità logica che può spiazzare all’inizio, costringendoci a salti temporali apparentemente slegati fra loro ma che assumeranno tutto il loro significato man mano che il racconto si evolve fino ad un finale chiarificatore ed esaustivo.
Nella prima parte del romanzo abbiamo un’introduzione, un “prologo” dove vengono narrati degli eventi storici che riguardano la Rocca di Lerma, comune della provincia di Alessandria, che hanno scatenato la fantasia popolare, da sempre alla ricerca del soprannaturale e del misterioso mondo del divino per giustificare la propria esistenza terrena, creando le leggende.
Laggiù ci sono i Mostri, la Rocca è casa loro. Se non li sfameremo, pian piano saliranno e ci mangeranno
Recita così un detto popolare piemontese, una sorta di ammonimento e di obbligo per chi viveva nelle campagne nei pressi della Rocca di Lerma, cui si lega un’antichissima leggenda secondo cui la rocca sia dimora dei mostri, gli Ungumani.
Pare che, durante il Medioevo, gli abitanti di Lerma si recassero sulla cima della rocca per scacciare, simbolicamente, i pensieri negativi e crudeli e che tutti questi pensieri finivano in fondo in mezzo ad un garbuglio di arbusti e alberi contorti e che lì si legavano insieme creando strani esseri: gli Ungumani, un incrocio tra umani e cinghiali (ungulati).
Secondo l’antico vocio popolare bisogna sfamare queste belve con gli scarti del cibo perché se ciò non verrà fatto i mostri, saliranno per cibarsi delle persone.
I mostri non sono l’unico mistero del romanzo. Ecco che Marengo ci porta nel 1409, tra le truppe dei mercenari di Facino Cane, detti “le belve” a causa delle loro imprese crudeli motivate solamente dalla sete di guadagno. Alcuni di loro si lasciano attrarre da una giovane intenta a lavare i panni al fiume e la inseguono nel bosco, dove scatta la trappola. L’imboscata però non ha molto successo perché le belve, ben addestrate, riescono a rifugiarsi in un infernot,(locale sotterraneo costruito scavando a mano una particolare roccia arenaria o tufo), solitamente destinato a cantina o dispensa, e si salvano.
I cani …” aveva detto con voce appena percettibile “Non dirmi che, di notte, non li hai sentiti ululare … Sono loro, dicono, le Belve di Facino Cane … Si aggirano per il paese solo quando è buio, si fermano a grattare alle porte e fanno il verso dei lupi. Qualcuno dice che siano gli ambasciatori della Morte: nelle case davanti alle quali si sono fermati a ululare, c’è sempre stato un morto.
Ma non finisce qui, l’autore mette in campo un’altra leggenda misteriosa che tratta di un tesoro nascosto. La leggenda narra di un gruppo di cavalieri della Repubblica Marinara di Genova che si recarono al castello, siamo nel 1565, per consegnare a Donna Isabella Corvalan, dama di compagnia della Regina Isabella di Castiglia, uno scrigno di cristallo contenente tre rose d’oro dai petali tempestati di rubini rossi, da consegnare alla Regina. Per timore dei ladri, Donna Isabella nasconde il prezioso dono che però, costretta a rientrare in patria improvvisamente , non riesce a riprendere rimanendo così nel nascondiglio.
Tutti questi fatti e leggende fanno da base alla seconda parte del romanzo che è ambientata ai giorni nostri con protagonista Tino, che ha rilevato la macelleria del paese, e una serie di personaggi, ben caratterizzati dall’autore, suoi concittadini.
Tra le due parti non c’è solo un cambiamento temporale ma anche di genere letterario e di stile narrativo.
La prima parte si rifà al romanzo storico e fantastico, dove l’autore usa un suo caratteristico stile narrativo molto originale, non particolarmente fluido, tanto che ad un primo approccio può confondere, ma con attimi di puro lirismo dove affiora il Marengo poeta. Diciamo che questa parte va letta con concentrazione, quasi sorseggiata per captare tutte le sfumature e atmosfere che racchiude.
In quel posto, assediato dal silenzio delle colline, sembrava che non ci fossero uomini o donne, ma solo mura a proteggere e, soprattutto, a nascondere indicibili segreti.
Il silenzio è peggio di mille pettegolezzi e il passato è colmo di crudeltà sepolte.
La seconda parte è il classico thriller/horror. Qui lo stile narrativo diventa fluido, sciolto, con dialoghi schietti e d’impatto, con la narrazione che alterna fasi di calma, oniriche a fasi concitate, adrenaliniche con l’utilizzo di elementi come la tensione, la sorpresa, l’ansia che mantiene il lettore in uno stato di elevata e costante suspence.
L’autore si serve del suo protagonista, Tino, per condividere i suoi sentimenti, i suoi ricordi, le leggende che hanno segnato i posti a lui tanto cari. Un personaggio Tino che racchiude, in un certo senso, i tre aspetti del romanzo: abbiamo il Tino “reale”, il bravo e scrupoloso negoziante, gentile affabile e sorridente con i propri clienti. Il Tino “onirico”, quello dei ricordi, delle leggende, dei sogni. Il Tino dell’ “istinto”, l’istinto animale che ammazza per salvaguardare la persona a lui cara, l’istinto che lo fa agire in modo sregolato, vizioso.
Un libro che nelle metafore raggiunge il massimo della poesia:
Crudele è il tempo, come una falce a volte ci priva di netto dei frutti del passato, cibandosi dei ricordi più cari che avevamo messo al sicuro in cantina.
Un libro che fa riflettere
Chi ha vissuto la guerra non può tornare indietro, non può vivere come prima. La cosa triste è che la guerra non si può trasmettere, a nulla valgono film, libri e racconti di reduci. È nel cuore e nella testa di chi l’ha vissuta. Malgrado ciò è utile che ogni tanto ritorni il ricordo sotto forma di raffiche di vento che portano parole.
Un libro per molti ma non per tutti, che puoi amare oppure odiare, ma che ti lascerà a fine lettura una morale che non può che farti meditare
In fondo di chi è la colpa? Pensateci …
Di nessuno. Del caso. Dell’interpretazione che diamo a ciò che vediamo.
Le foto a corredo dell’articolo sono state fornite dall’autore stesso, Marco Marengo, ad eccezione della prima che è un dipinto di Teresa Gizzi.
Editore: epubli (13 aprile 2020)
Copertina flessibile: 248 pagine
ISBN-10: 3752939982
ISBN-13: 978-3752939989
Link di acquisto cartaceo: Il pane del boia
Stupenda recensione!
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