Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.
Inizia così la scena seconda dell’atto terzo del Giulio Cesare di William Shakespeare, l’opera teatrale che contiene uno dei monologhi più celebri che siano stati scritti nella storia del teatro, ovvero il Discorso di Antonio sulle spoglie di Cesare.
Perché vi parliamo di quest’opera e di questo dialogo in particolare?
Perché una delle più grandi interpretazioni di questo Discorso è stata fatta da un grandissimo Attore italiano (la maiuscola non è un refuso nè casuale) scomparso di recente: Gigi Proietti. Un monologo che avremo la possibilità di vedere stasera (4 novembre, n.d.r.) su Rai1 in una puntata speciale che Alberto Angela dedica al grande (matt)attore romano, e a cui noi di TSD, a nostro modo, secondo la nostra linea editoriale vogliamo rendere omaggio. E lo facciamo parlando di Storia, letteratura, teatro e parola.
Andiamo con ordine, perché lo sappiamo, la Storia è lineare, ha un prima, un durante e un dopo; e ha un perché.
William Shakespeare (che non abbisogna certo di presentazioni, ma di cui potete leggere un’intervista speciale che abbiamo ricevuto a cura di Paola Zannoner) scrive il “Giulio Cesare” tra il 1599 e il 1600, ovvero dopo le commedie romantiche e i grandi drammi storici, in coincidenza con il periodo più cupo e austero che abita l’ispirazione del grande drammaturgo inglese e di questi toni, inevitabilmente, saranno “illuminate” le sue tragedie.
Ispirato alla Vita di Cesare scritta da Plutarco, Shakespeare nel suo Giulio Cesare propone una visione problematica degli avvenimenti, riversando in essa la crisi generale dell’universo e dell’uomo che la cultura occidentale aveva ereditato dal mondo classico, mantenendola in vita fino a tutto il Rinascimento. Una crisi che qui è rappresentata nel momento in cui decostruisce la stessa istituzione sacrale della Repubblica e con essa la società che si voleva armonica e da sempre preordinata.
Non staremo qui a raccontarvi tutta la trama del “Giulio Cesare”, ma una parte, quella che ci serve per traghettarci al Discorso di Antonio. Noti a tutti sono i fatti tramandati dalla Storia, fatti già conosciuti nel ‘600 e a cui Shakespeare resta fedele. Ma a Shakespeare non interessava mettere in scena i fatti, quanto approfondire e mettere in risalto la psicologia dei personaggi che hanno decretato quei fatti, gli attori della scena politica di quell’epoca, i faciens dei facta, sottolineando difetti e virtù tipici delle persone quali l’odio, la fedeltà, l’onore.
Dunque, dicevamo i fatti: le voci su una futura imminente dittatura di Cesare che però ha rifiutato la corona di dittatore offertagli in Senato in occasione della festa Lupercali; la preoccupazione crescente per il potere di Cesare; la congiura ordita da Cassio della cui validità cerca di persuadere il suo amico Bruto (uomo noto per il suo valore e la sua integrità), in nome della libertà di Roma minacciata da Cesare; l’assassinio di Cesare; le pugnalate; la morte. Ed eccoci al clou della tragedia shakesperiana.
Giunge il console Marco Antonio (uno dei principali esponenti del partito cesariano), chiede il permesso di organizzare i funerali di Cesare e di pronunciarne l’elogio funebre. Bruto gli accorda il permesso, a condizione che non parli contro i congiurati. Prima però parla Bruto che spiega come l’uccisione di Cesare non sia stata motivata da odio o interessi personali, ma solo dall’amore per la libertà e dalla volontà di impedire una tirannia. Subito dopo parla Marco Antonio, e il suo discorso sulle spoglie di Cesare, è un brillante pezzo di oratoria:
Nobili romani! Amici, concittadini romani! Prestatemi orecchio. Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l’elogio. Il male che un uomo fa, gli sopravvive, il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa. E così sia di Cesare.
Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso: se era, ebbe grave colpa; e Cesare l’ha gravemente scontata.
Qui, col beneplacito di Bruto e degli altri – che Bruto è un uomo d’nore, e anche gli altri, tutti uomini d’onore – sono venuto a parlare al funerale di Cesare.
Fu un mio amico, leale e giusto con me.
Ma Bruto dice che era ambizioso: e Bruto è uomo d’onore.
L’orazione funebre ricorre ovviamente innanzitutto al pathos, un elemento retorico di ordine affettivo. Ma è una retorica manipolatrice ed è linguisticamente interessante per l’uso dei “ma” e dei “tuttavia”.
Ci avete mai fatto caso? Nei discorsi spesso arriva sempre un “ma” anche quando iniziano con lodi e complimenti: “È bello ciò che hai detto, ma…”; “grazie per quello che hai fatto, ma…”. E dopo quel “ma” giunge la verità, svoltato il “ma” troviamo ciò che veramente si pensa di una persona o di un fatto.
Nell’orazione funebre di Marco Antonio sul corpo morto di Cesare, Shakespeare inizialmente contraddice questo tipico modo di procedere del discorso umano: “E tuttavia Bruto è un uomo d’onore”. Ma è apparenza, è un inganno linguistico, è specchietto per le allodole, perché tutto il discorso procede nella voluta ambiguità della parola (e qui si riconosce uno dei tratti più caratteristici del grande Shakespeare e delle sue opere, pochi come lui hanno un possesso tale della lingua e dei giochi che si creano). Mentre Antonio parla in maniera positiva di Bruto, pian piano introduce nell’animo degli ascoltatori il giudizio severo sul traditore,
Io non vengo qui a smentire Bruto ma soltanto a riferirvi quello che io so.
Ed è questo nuovo “ma” la prima svolta linguistica e significante del discorso, che è seguito da un “tuttavia” ancora più esplicito che nega il “tuttavia Bruto è un uomo d’onore”
Ed ecco che arriva la stoccata finale di Antonio, una sola frase, un solo tuttavia rende esplicito il punto a cui tendeva il suo discorso: sobillare la folla volubile. Che infatti, alla fine, ritorna a osannare Cesare e reclama la morte violenta dei cospiratori.
E tuttavia io ho con me trovata nei suoi scaffali una pergamena con il sigillo di Cesare, il suo testamento.
(Il testamento di Cesare conteneva lasciti in denaro ad ogni cittadino romano, n.d.r.)
Il discorso di Antonio riesce nello scopo, infiamma gli animi degli astanti, dei romani contro i congiurati che sono costretti a lasciare la città per evitare il linciaggio. Il resto della Storia è cosa nota, e lasciamo a voi la curiosità di andarla a rileggere.
Dunque, tutto il “Giulio Cesare” di Shakespeare può essere letto come una accurata analisi delle contraddizioni tra fini e mezzi in cui incorre chi, battendosi per ideali di libertà e di eguaglianza, decide di ricorrere all’uso della violenza, e che ha e avrà sempre risvolti tragici.
La tragedia in scena, dunque è sì la tragedia di Cesare, di lui porta il nome, ed è tragedia dell’ordine costituito; ma è anche tragedia di Bruto: le sue azioni sono sì dettate da un nobile ideale, quale quello della libertà, ma in questo caso gli si ritorce contro, vediamo un uomo e un intellettuale distrutto dalle sue stesse virtù. E proprio perché tale tragedia potesse cogliere i dubbi e le contraddizioni che solcano anche i momenti più alti dello spirito, essa illumina in profondo il rapporto fallimentare fra virtù pubblica e privata, fra ingenuo, stoico eroismo e senso politico dell’azione.
Una tragedia politica, certo, questo “Giulio Cesare”, legata a un fatto ben preciso, ma che Shakespeare rende immortale, perché immortali sono i valori, gli ideali, la parola, il pathos. Immortali e attuali. Come la Storia. Come i suoi attori. Come i suoi interpreti.
Fonti:
http://www.gliscritti.it/blog/entry/2474
http://web.math.unifi.it/users/rosso/ALTRO/Shakespeare_L’orazione_funebre_di_Antonio.html
https://www.teatropertutti.it/monologhi/monologo-marco-antonio-giulio-cesare-shakespeare/