Articolo a cura di Maria Marques
Visse pericolosamente e partecipò personalmente a varie battaglie, non fu certo un codardo. Uomo d’azione ma anche di pensiero, ammoniva:
…perché si possa dire d’aver pensato a una cosa, bisogna prima averla fatta.
Arduo parlare delle sue prodigiose gesta, altrettanto difficile raccontare di Napoleone a tavola.
La dieta di Napoleone sembra, dai documenti e le testimonianze giunte fino a noi, fosse decisamente triste. Nessun gusto particolare per piatti raffinati, nessun particolare desiderio gastronomico. Solo efficienza e pasti sbrigativi, prevalentemente a base di zuppe con cipolla, pollo o verdure, nobilitate da puro olio d’oliva, rimando all’origine toscana della sua famiglia. Apprezzava la carne di pollo, montone alla griglia, le cotolette, ma era esigentissimo per quello che riguardava il pane.
Napoleone Bonaparte non godette mai della nomea di buongustaio, riusciva a saltare i pasti con grande disinvoltura anzi, si narra che arrivasse ai banchetti sempre con estremo ritardo trovando gli ospiti, che lo attendevano, sfiniti e illanguiditi dalla fame. Da primo console affermava:
Se volete mangiare bene, pranzate col secondo console, se volete mangiare molto pranzate col terzo console, se volete mangiare in fretta e furia pranzate con me.
Da imperatore non disdegnava l’uso delle mani, diventando a volte fonte di imbarazzo per gli ospiti.
Commensale sbrigativo e disattento, consumava il pasto in pochi minuti e i suoi ospiti non riuscivano a seguire il ritmo vertiginoso con cui lui lo divorava. Da questa sua cattiva abitudine alimentare deriva quel suo mal di stomaco, la gastrite, che con forti crampi lo attanagliava, di cui rimane immagine nella tradizione iconografica dei suoi ritratti, con la mano confortante infilata strategicamente nel gilet.
Anche per l’etichetta lasciava molto a desiderare, aiutandosi con le mani e qualche volta, facendo la “scarpetta” col suo pezzo di pane nell’intingolo del vicino.
Ci provò ad essere un esempio di buone maniere e di etichetta, anche a tavola, quando, ormai Imperatore dei francesi, sposò Maria Luisa d’Asburgo, discendente di Carlo V e figlia dell’imperatore d’Austria Francesco I. Questo matrimonio lo balzava nel Gotha della nobiltà europea. Fu per amore della giovane bionda viennese, di cui era innamoratissimo, che si impegnò a rimanere a tavola, ben composto, più a lungo possibile, cercando di apprezzare tutte le portate che l’ormai imperiale menu prevedeva. Anche la mise en place della tavola delle Tuilleries si era arricchita delle preziose manifatture di Limoges, che fornivano splendide porcellane su cui si intrecciavano armoniosamente la mitica N e le iniziali della sposa.
Napoleone Bonaparte e Maria Luisa furono certamente una coppia male assortita, sotto moltissimi punti di vista. Lui, di estrazione proletaria benché la sua famiglia ci tenesse (tantissimo) a sbandierare una nobiltà di terz’ordine, quasi certamente acquistata in moneta sonante; lei, dal sangue talmente antico e sottile e nobile da non riempire manco un ditale, rampolla predestinata delle discendenze più nobili d’Europa. Lui, soldataccio e avventuriero, rotto a tutte le fatiche e le privazioni dei campi di battaglia; lei, educata alle bambole, al taglio e cucito e alla cura dei cuccioli. Lui, a suo agio in mezzo ai soldati; lei, al centro dei ricevimenti. Lei, regina dell’etichetta; lui, sfacciato e informale. Forse in nessun posto come a tavola era evidente l’abisso che li separava.
Un pasto normale di Maria Luigia d’Austria consisteva di quattro entrées, potage, due secondi, l’immancabile dessert (fosse per lei, sarebbe vissuta di soli dolci), sicuramente formaggio, che sulla tavola francese che aveva appena adottato non poteva mancare a fine pasto, vino preferibilmente dolce, golosa com’era, ma anche lo Champagne e il Bordeaux, caffè, che tra Vienna e Parigi ha ormai spopolato, e ammazzacaffè; liquori e liquorini, e poi bonbons, perché la vita non è mai abbastanza dolce.
Napoleone, dal canto suo, a testimonianza di un vero, genuino e grande amore stupiva tutti i testimoni dell’epoca concedendo a sua moglie un onore quale nessuno aveva, né avrebbe mai più, potuto vantare: sedeva con lei per mangiare. Mentre lei si abboffava come suo solito, però, lui al contrario – dotato di un fisico molto meno resistente agli stravizi, e di tempistiche cerebrali da contadino e militare – piluccava svogliato e distratto: il salotto, per l’appetito, non valeva certo una tenda da campo, e in assenza di marce (per gli altri, a piedi; per lui, a cavallo, s’intende) lo stomaco non faceva richieste pressanti. Così, mettendo assieme abitudini frugali, assenza di gusto e di curiosità gastronomiche, il pasto dell’Empereur risultava sempre molto uguale a se stesso. Un po’ di carne: montone alla griglia, per stare sul classico; e pollo, che gli piaceva molto perché poco impegnativo e pronto a intridersi di sughetti e di odori che poi raccoglieva con quintali di pane, probabilmente in assoluto l’unica cosa di cui era ghiotto e sul quale era capace di cavillare: guai a sbagliare cottura, guai se trovava residui di macina, guai alle imperfezioni nella mollica o se il pane non era abbastanza bianco. Per un pane non sufficientemente bianco era scoppiata la Rivoluzione francese, sarebbe stata un’onta insopportabile se al suo desco ce ne fosse stato di mediocre; specie dopo tutto il pane raffermo masticato con l’esercito. Caffé, assai volentieri; anche té, meno impegnativo e più dissetante. Vino, due dita di rosso Chambertin di Borgogna. Napoleone lo beveva puro o annacquato (perché odiava non sentirsi padrone di se stesso o insonnolito) e lo volle con sé anche nella perigliosa campagna d’Egitto e se lo fece spedire in fusti a tenuta stagna. Dolci, assolutamente mai. Liquori, meglio la morte.
Ma torniamo al pollo che era una delle sue carni preferite.
Correva l’anno 1800 e il 14 giugno ebbe luogo, durante la guerra della seconda coalizione, tra le truppe francesi dell’Armata di riserva, al comando del Primo console Napoleone Bonaparte, e l’esercito austriaco comandato dal generale Michael von Melas la celeberrima battaglia di Marengo (vinta poi dai francesi). Napoleone, come abitudine, durante la battaglia non toccò cibo ma una volta terminata ordinò la cena a Dunand, il suo chef sul campo di battaglia.
Dunand si ritrovò quali uniche provviste 3 uova, 4 pomodori, 6 gamberi di fiume, 1 gallina starnazzante, qualche spicchio di aglio e dell’olio. Usando la sua razione di pane, Dunand preparò dei crostoni friggendoli in una padella dove poi aggiunse il pollo tagliato a pezzetti con la sua sciabola. Una volta cotto, lo mise da parte, friggendo successivamente nella stessa padella le uova con l’aglio ed i pomodori. Ci spruzzò sopra un po’ d’acqua mescolata a del cognac che aveva preso dalla fiaschetta del suo generale e per ultimi aggiunse i gamberi. Si dice che Napoleone, rimasto soddisfatto, ordinò a Dunand di cucinargli sempre questo piatto dopo ogni battaglia.
Era nato il “Pollo alla Marengo“.
Da bravo cuoco, Dunand ben sapeva che il cognac ed i gamberi di fiume non c’entravano per nulla con questo piatto ragion per cui quando lo preparò di nuovo, sostituì il cognac con del vino bianco e eliminò completamente i gamberi di fiume aggiungendo dei funghi. Napoleone si arrabbiò moltissimo e rimandò il piatto indietro dicendo che mancavano i gamberi ed essendo molto superstizioso, era certo che ciò gli avrebbe portato sfortuna.
Non sappiamo se tutto ciò è vero o se sia soltanto leggenda; quello che è certo è che il piatto è diventato parte della tradizione gastronomica piemontese.
Fu annoverato anche dal buon Pellegrino Artusi che ne riporta la ricetta nel suo famoso ricettario “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
La sera della battaglia di Marengo, nel sottosopra di quella giornata non trovandosi i carri della cucina, il cuoco al primo Console e ai Generali improvvisò, con galline rubate, un piatto che manipolato all’incirca come quello che qui vi descrivo, fu chiamato Pollo alla Marengo; e si dice che esso fu poi sempre nelle grazie di Napoleone, se non pel merito suo, ma perché gli rammentava quella gloriosa vittoria. Prendete un pollo giovane ed escludendone il collo e le zampe, tagliatelo a pezzi grossi nelle giunture. Mettetelo alla sauté con grammi 30 di burro, una cucchiaiata d’olio e conditelo con sale, pepe e una presa di noce moscata. Rosolati che sieno i pezzi da una parte e dall’altra scolate via l’unto e gettate nella sauté una cucchiaiata rasa di farina e un decilitro di vino bianco. Aggiungete brodo per tirare il pollo a cottura, coperto, e a fuoco lento. Prima di levarlo dal fuoco fioritelo con un pizzico di prezzemolo tritato e quando è nel vassoio strizzategli sopra mezzo limone. Riesce una vivanda appetitosa.
Tra pentole e fornelli si vociferava però che l’imperatore fosse un po’ tirchio (questo spiega perché alle sue dipendenze si siano susseguiti ben undici cuochi) per gli stipendi da fame che aveva stabilito per i cuochi e per le vecchie attrezzature delle cucine che mal volentieri rinnovava.
Anche i cuochi vissero in prima persona la parabola dell’astro napoleonico, fino alla tristezza e alla solitudine dell’esilio nell’isola di Sant’Elena. Anche qui, in questo piccolo fazzoletto di terra, dove consumava l’ozio forzato, non era capace di arrivare puntuale a tavola, nella sala da pranzo di Villa Longwood, domicilio assegnatogli dagli inglesi. Chandelier, l’ultimo cuoco che lo aveva accompagnato in questa sua ultima desolata residenza, aveva l’ordine, quando non c’erano ospiti, di preparargli la zuppa del soldato, una specie di rancio, fatto con brodo, pane e verdure. Il 5 maggio 1821, con questo antico, familiare sapore, riannodando i fili delle sue memorie e delle sue passioni, mormormorando “À la tête de l’armée“, si spense tra i tormenti di un grande dolore fisico, sicuramente non minore di quello dell’anima.
E vi lasciamo qualche riferimento letterario
A tavola con l’Imperatore
80 ricette napoleoniche da provare
Fonti
https://www.innaturale.com/cosa-mangiava-napoleone-bonaparte/
https://www.cucineditalia.com/da-manzoni-a-marengo-passando-per-bonaparte/