Articolo a cura di Armando Comi
L’uomo è davvero insensato. Non saprebbe fare un pidocchio, e fabbrica dèi a dozzine
Saggi
Montaigne non può definirsi un filosofo sistematico. La sua opera è una riflessione sulla natura umana, riflessione che prende spunto da un evento storico che offre un punto di osservazione inedito per la cultura occidentale: la scoperta dell’America. Cosa c’è di interessante nella scoperta di un nuovo continente dal punto di vista filosofico e antropologico? Il punto è che
con il nuovo continente venne anche scoperto un uomo nuovo, diverso da quello noto in Europa, Nord Africa, Medio Oriente e Asia. Si trattava di uomini “selvaggi”, che non avevano idea di cosa fosse una chiesa o una moschea, uomini che non sapevano chi fossero Cristo, Maometto o Javhé. La scoperta di tali uomini mise fortemente in crisi il pensiero cinquecentesco, e rappresentò un grande momento di riflessione.
I Saggi, sono l’opera nella quale Montaigne analizza la propria vita e la propria esperienza, e ne trae riflessioni che proietta anche sul resto dell’umanità. Tra le cose che
Montaigne osserva di sé stesso, e dunque del genere umano, è che lui
si sente un animale limitato. Noi uomini siamo limitati nel tempo che abbiamo da vivere, nelle cose che possiamo conoscere, nelle facoltà che possediamo. Abbiamo la facoltà della memoria, ma è limitata, abbiamo la facoltà razionale ma è anch’essa limitata, così come sono limitate la vista o l’udito. E cosa vi è oltre il tempo che ci è concesso da vivere? Cosa c’è oltre l’orizzonte che non posso vedere? Non lo sapremo mai, siamo condannati pertanto ad accettare l’incertezza.
L’incertezza è la cifra del pensiero di Montaigne.
Come fa l’uomo a vivere nell’incertezza? È chiaro che sarebbe una vita angosciata quella dove l’incertezza paralizza ogni giudizio o ogni azione.
Montaigne ritiene invece che l’incertezza vada vissuta con razionalità. Solo se conosco i miei limiti posso darmi degli obiettivi limitati. È un punto di vista misero? Sì, perché misera è la condizione umana. L’uomo si crede capace di innalzarsi in cielo ma è irrimediabilmente costretto a vivere sulla terra. Ecco in cosa consiste la razionale incertezza, nel non pretendere dall’uomo ciò che l’uomo non potrà mai essere a causa della sua natura limitata. La riflessione di Montaigne diventa dunque una riflessione sul “limite”, e per questa ragione deve prendere in considerazione il limite per eccellenza, il limite supremo dell’uomo, quello che non si potrà mai varcare da vivi: la morte.
Ogni nuovo nato ha una sola certezza, ovvero la morte. L’azione del vivere include al suo interno l’azione del morire, sono due aspetti inestricabili. Talmente inestricabili che ogni cosa che facciamo possiede al suo interno la morte, ogni cosa che ha un inizio ha anche una fine, ogni volta che ci svegliamo da vivi portiamo dentro la coscienza che saremo morti. È l’essere vivi che lo impone. La morte è il prezzo da pagare per essere vivi. Allora ecco qual è
il compito della filosofia, insegnare a morire. La morte è quell’insegnamento che ti aiuterà a vivere. Inutile condurre una vita fingendo di essere immortali, sarebbe una vita falsa. Accettare la morte è invece la condizione che consente di vivere appieno la vita, senza disperdere tempo in azioni insensate. L’insegnamento fondamentale è che il nostro tempo è limitato, e non è ragionevole usarlo male.
La riflessione sulla coscienza del limite investe poi la nostra capacità di giudizio. Che senso ha, scrive Montaigne, giudicare qualcuno inferiore solo a partire dal nostro punto di vista? È il caso di quanto avvenne con gli spagnoli che trovarono le popolazioni indigene delle Americhe, immediatamente etichettate come selvagge, come inferiori. Per Montaigne è chiaramente uno dei “limiti” del comportamento umano. È il limite di chi è abituato a vivere in un certo modo e non si pone neppure il problema che possano esistere modi di vita diversi e altrettanto civili. Montaigne ironizza, soprattutto contro i conquistatori, e si domanda se sia più incivile vivere senza vestiti o bruciare vivi i propri nemici, se sia più barbaro mangiare cibi strani o dare da mangiare i propri prigionieri a qualche bestia. Chi è il vero incivile?
Quelli che noi europei chiamavamo selvaggi erano in realtà, secondo Montaigne, gli uomini che vivevano nella condizione più vicina allo stato di natura. Certo anche gli indigeni fanno le guerre, ma le combattono per fame, per ottenere risorse. Nessuno di loro combatte per ragioni religiose o per allargare i confini del proprio regno.
Quello che i conquistatori chiamano selvaggio è in realtà una persona buona, rappresenta ciò che noi europei vorremmo essere ma che non riusciremo mai più a essere.
Religioni, regole sociali, politica ci hanno allontanato dalla bontà naturale propria dell’animale uomo. L’uomo scoperto nelle Americhe non è violento come l’uomo europeo. A partire da queste considerazioni Montaigne si domanda quale sia la responsabilità di quella che noi chiamiamo “cultura” nell’aver creato un mondo dove la violenza, la guerra, la ricchezza sono valori che altrove non erano presenti e senza i quali si viveva in modo più equilibrato e naturale.
Montaigne,
Saggi, XXXI.
Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. […] Tutti i nostri sforzi non possono arrivare nemmeno a riprodurre il nido del più piccolo uccellino, la sua tessitura, la sua bellezza e l’utilità del suo uso, e nemmeno la tela del miserabile ragno. Tutte le cose, dice Platone, sono prodotte dalla natura, o dal caso, o dall’arte; le più grandi e le più belle, dall’una o dall’altra delle due prime cause; le più piccole e imperfette, dall’ultima.
Quei popoli dunque mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani. È un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici: nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza di servitù di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che ha immaginato: «Uomini or ora usciti dalle mani degli dèi»1 . «Queste sono le prime leggi che ha dato la natura»2 . […] Essi fanno guerra contro i popoli che sono al di là delle loro montagne, più addentro nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che archi o spade di legno, appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro tenacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare, poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo di essa, lontano di qualche passo per paura di esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al suo più caro amico; e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti. […] Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre.
Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa)3 , che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto. […] Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie. La loro guerra è assolutamente nobile e generosa, e ha tutte le giustificazioni e tutta la bellezza che può avere questa malattia dell’umanità; tra loro essa non ha altro fondamento che la sola passione per il valore. Non lottano per la conquista di nuove terre, perché godono ancora di quell’ubertà naturale che li provvede senza lavoro e senza fatica di tutte le cose necessarie, con tale abbondanza che non hanno alcun interesse ad allargare i loro confini. E sono ancora nella felice situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro.
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