Trama
Germania, 1942. Hans Heigel è un ufficiale di complemento delle SS, di istanza presso il presidio di Osnabrück, una cittadina della Bassa Sassonia, dove vive con la moglie Ingrid e la piccola Hanna.
Lontano dagli affollati büros di Berlino, intenti a progettare la rinascita della nuova Germania e a decidere il futuro dell’Europa, Hans è riuscito a rimanere ai margini di un Paese che non riconosce più come il suo. Per timore di ritorsioni sulla propria famiglia, ha imparato a tenere per sé le sue preoccupazioni e a convivere con le politiche aberranti del Reich. Ma, quando la più terribile delle tragedie lo colpisce, quel mondo di carta, in cui è rimasto nascosto, crolla ed è costretto ad affrontare la realtà.
Riassegnato al campo di sterminio di Sobibòr, in Polonia, Hans vedrà, con i propri occhi, quanto la Germania sia sprofondata in un abisso dal quale non c’è ritorno. Sarà proprio in quell’abisso, che troverà il motivo per reagire a tanto orrore: Leah Cohen, una bambina ebrea che pare il ritratto della figlia Hanne. Fino a che punto, un uomo pacifico come Hans Heigel potrà restare inerme davanti all’orrore che lo circonda?
Recensione a cura di Sabrina Ceni
1287, i chilometri dal confine italiano a Sobibòr. Oggi, quindici ore circa di viaggio in autostrada, con la faccia di tuo figlio appiccicata al finestrino che, ogni tanto, si gira e ti sorride indicando le meraviglie del paesaggio. Quindici ore, senza contare le soste benzina e caffè, e i cambi al volante e magari una notte in un hotel cinque stelle e una cenetta in un ristorante tipico lungo la strada.
1287, i chilometri dal confine italiano al campo di sterminio di Sobibòr. Nel 1943, ore infinite, stipati al buio, come animali su un carro merci, senz’aria, né acqua, né cibo, esalando lungo i binari, quella poca vita che ti è rimasta dentro, insieme alla dignità di essere umano; con gli occhi di tuo figlio che non riesci neppure a vedere. Li puoi solo immaginare, vuoti, sgranati nel buio, che cercano i tuoi e la consapevolezza che sarebbe meglio morirci, sul quel treno.
Ed è in quelle tenebre profondissime che ci portano Franco Forte e Scilla Bonfiglioli. Una scrittura leggera e forte al tempo stesso, un capolavoro che si legge tutto d’un fiato, perché non riesci più a staccarti dalle pagine. Un romanzo commovente, doloroso, terribile. Un senso di ineluttabilità e rassegnazione che ci pervade dalle prime righe, attraverso il sentire di Hans Heigel: quella sensazione che tutto quello che hai di più prezioso al mondo, possa essere spazzato via da un momento all’altro.
…levò lo sguardo al sottotetto. Le colombe tubavano nei nidi… Guardarle gli diede conforto. Se… fosse capitato qualcosa di brutto, non avrebbero dimostrato tanta insensibilità con quei loro strepiti di primavera…
Un libro che ci sprofonda nell’orrore della Shoah, in quelle pagine di storia sempre più spesso sminuite o negate. Eppure, in mezzo a tanta atrocità, quando tutto sembra ormai perduto, Hans Heigel, una speranza, riesce a trovarla.
Tenebre profondissime, fomentate con pazienza, tenacia.
È il 5 settembre 1935 quando, dalla Germania che cerca di risorgere dalla sconfitta della Prima Guerra Mondiale, vengono redatte le Leggi di Norimberga: si decide chi possa o non possa far parte del popolo tedesco.
Tre anni dopo, il 14 luglio 1938, sul Giornale d’Italia, viene pubblicato il Manifesto sulla razza, sottoscritto poi da ben 108 scienziati, come a voler sancire la fondatezza di tali aberrazioni. Il cinque settembre, il Regio Decreto per la difesa della razza viene sottoscritto a Villa del Gombo, presso la Tenuta di San Rossore, a Pisa. Due giorni dopo, il Gran Consiglio fascista appronta le misure contro gli ebrei stranieri.
La notte del 9 novembre passa alla storia come la Notte dei Cristalli: le SS e la Gioventù hitleriana si accaniscono contro le case, i negozi, le sinagoghe ebraiche. E, il 17 dello stesso mese, il fascismo avvalla i provvedimenti per la difesa della razza italiana: il momento più buio, quello delle leggi razziali.
Il 20 gennaio 1942 nei pressi di Berlino, sulle rive del lago Wannsee, il Reichsmarschall Hermann Göring, su ordine di Adolf Hitler, comunica ai più alti ufficiali e burocrati nazionalsocialisti, la “Soluzione Finale della questione ebraica”. Una terminologia specifica, approntata per definire un progetto pianificato nei minimi dettagli, come si pianifica la politica di una grande impresa in cui, ogni ingranaggio deve funzionare in perfetta sincronia con gli altri, affinché la macchina dell’orrore sia produttiva e si possano ottimizzare i profitti. Produrre, quotidianamente, un numero soddisfacente di morti per evitare che certi giorni non siano giorni di magra, perché ringhia Heinrich Himmler alla riunione di Berlino alla quale partecipa anche Hans, bisogna fare in modo che i lager continuino a lavorare a pieno regime.
Un libro che mi ha catturato da subito.
Franco Forte e Scilla Bonfiglioli ci mostrano il mondo attraverso gli occhi del protagonista e noi non possiamo far altro che inorridire. Personaggi vivi che affiorano dalle pagine e ci trascinano negli anni ’40 del XX secolo. L’atmosfera è palpabile, ci avvolge in un crescendo di tensione e paura e ci pare di essere lì, di fianco ad Hans, a chiederci cosa avremmo fatto noi, nella stessa situazione.
Hans va avanti cercando di non far trapelare, dai gesti e dalle parole, lo sdegno nei confronti del proprio Paese; si concentra sulla famiglia, sulla ripetitività della routine quotidiana, sulle note di un disco di Wagner che lo accolgono, quando entra nella sala da pranzo e, Ingrid e Hanne, sono lì ad aspettarlo, sperando che quell’orrore non arrivi mai a bussare alla porta di casa sua. Ma Hans non sa ancora, che ci sono mostri ben più subdoli, invisibili, capaci di risucchiare la vita e di lacerare l’anima.
Dopo la morte della figlia, il presidio di Osnabrück viene chiuse e Hans è riassegnato, con effetto immediato, al campo di sterminio di Sobibòr.
Parte, lasciando la moglie dilaniata dal dolore per la perdita della piccola Hanne: lo sguardo vuoto e le parole diLili Marlen sussurrate a fior di labbra, quasi fossero una preghiera. Sul treno diretto verso la Polonia, Hans porta con sé l’unica cosa preziosa: il ricordo dello sguardo della sua bambina. Tra le carte con le informazioni sul campo a cui era stato assegnato, si nasconde Fraülein Kuken, la bambola della figlia.
Giunto a destinazione, si trova davanti al tubo, un cammino obbligato recintato di filospinato, attraverso il quale, gli ebrei vengono condotti alle camere a gas; Hans capisce di essere finito all’inferno.
Sobibòr, in funzione dal 16 maggio 1942, con Belžec, Treblinka, Chelmno e Auschwitz-Birkenau, rappresentava uno dei principali campi di sterminio del regime nazista impegnato nell’operazione Aktion Reinhardt, termine in codice per indicare lo sterminio degli ebrei e non solo: molti erano i prigionieri sovietici e zingari.
Era già come se fossero tutti morti. Non tremano per il freddo, si disse Hans.
E poi, tra tutti quei volti che scendono dai vagoni del convoglio ferroviario che, ogni giorno, porta un nuovo carico, all’improvviso, Hans vede qualcosa che non pensava fosse possibile capisce di avere ancora una speranza di salvezza: la redenzione per essere stato a guardare fino a quel momento, senza fare niente.
Gli autori fondono verità storica e romanzo; attraverso una scrittura evocativa che ci tocca nel profondo, danno voce a chi non ha potuto lasciare traccia di sé, se non gli averi personali, ammucchiati a testimoniare l’orrore di quei campi. E, con orrore, ci fanno scoprire quanto l’essere umano possa essere perverso oltre ogni immaginazione: arrivare a chiedere ai prigionieri di scrivere ai parenti per rincuorarli, per comunicare loro che va tutto bene e non spedire mai quelle lettere anzi, deriderle mentre gli stessi uomini, donne e bambini che le hanno scritte, vengono condotti nelle camere a gas. Tutto per nascondere con la menzogna, ciò che avviene a Sobibòr o, forse, solo per depravazione, per diletto personale, per convincersi che quello che stanno facendo sia giusto, deridere il nemico, sminuirlo quando non c’è rimasto più nulla da sminuire. Orrore nell’orrore.
Qualcuno ne ha scritte anche quattro o cinque… pensano che le spediremo davvero!
Franco Forte e Scilla Bonfiglioli, ci fanno sentire il battito del cuore che accelera, la consapevolezza di rischiare la vita in ogni istante, il freddo del campo, la miseria umana ma anche la forza dei ricordi, un odore, le aiuole ai margini delle baracche, cose semplici che esplodono nella memoria, che riaffiorano nei momenti più bui, la caparbietà, il coraggio che cresce ogni giorno un po’ di più, la voglia di vita di fronte a una crudeltà indicibile. I sogni di Hans, la voce che sussurra tra le urla del campo, quasi qualcuno da lassù gli tendesse una mano e gli indicasse la via.
Questo è il Vorlager» declamò Vossel, avanzando nello spiazzo davanti all’alloggio di Reithmann. Allargò le braccia come per accogliere al petto le aiuole fiorite e i vialetti curati tra casette di legno dalle imposte dipinte. Da qualche parte arrivava la melodia di un grammofono. Hans riconobbe le note di Lili Marleen. «Ovvero, il distretto degli ufficiali. Il tuo alloggio è là, non lontano dalla piattaforma ferroviaria.» Vossel indicò una casetta deliziosa quanto tutte le altre. Stonava drammaticamente con il campo aperto e brullo sul retro, che dava sull’unico binario, mezzo ingoiato dagli alberi e dal reticolato.
Alla fine dell’estate del 1942, per non lasciare traccia dei crimini commessi, le fosse comuni vennero riaperte e i prigionieri furono costretti a riesumare e cremare migliaia di corpi, consapevoli che la stessa sorte sarebbe toccata pure a loro. Con le migliorie logistiche dell’estate del 1942, Sobibòr potenziò l’efficienza delle camere a gas, arrivando a poter gasare 1300 persone contemporaneamente.
Quando il campo venne smantellato e chiuso, al suo posto, venne costruita una fattoria di copertura gestita da una guardia ucraina che fingeva di essere un contadino. La stazione ferroviaria di Sobibór rimase operativa fino al 1999. Nel settembre del 2014, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, ha individuato la collocazione delle camere a gas.
Nel 2014.
Solo sei anni fa.
E a noi, tra le righe del libro, pare di vederli quei vagoni, stipati di gente.
Scorrono i nomi nelle liste dei deportati, uno dietro l’altro, date di nascita, luoghi di nascita, matricole, date di morte, luoghi di morte. Perché da quei campi di sterminio, in pochissimi sono tornati. Davanti a tanta atrocità, si cerca di distogliere lo sguardo, noi distanti quasi un secolo da quegli eventi, eppure la terra tracima ancora quell’odio. Ci camminiamo sopra quando andiamo a portare i nostri figli a scuola, quando andiamo al lavoro, a fare la spesa, a un cinema, quando prendiamo un treno e fissiamo il paesaggio scorrere sotto ai nostri occhi. Ripercorriamo le stesse strade di quelle donne e di quegli uomini vissuti quasi un secolo fa, i bisnonni e le bisnonne, per quelli della mia generazione. Le figure di Hitler e dei suoi adepti sono state paragonate a Satana, perché un modo per esorcizzare tanto orrore, andava pur trovano ma, purtroppo non c’entra l’inferno, c’entra l’uomo e quanto in basso possa sprofondare per raggiungere i propri fini. E’ impossibile pensare che l’essere umano possa arrivare a fare certe cose eppure, l’essere umano continua a farle, certe cose, anche oggi, in luoghi neppure tanto lontano da noi. E, in questo mondo ormai digitalizzato, globalizzato anche il solo voltarsi dall’altra parte, diventa una colpa.
Forse, anche noi, come Hans, dovremmo fermarci a riflettere; agire nel nostro quotidiano per evitare che, ancora una volta, l’odio per il diverso tracimi fuori da bocche abbaianti come quella di Himmler e contamini i pensieri dei nostri figli.
Franco Forte e Scilla Bonfiglioli ci raccontano del passato, per parlarci del presente.
Ecco perché, libri come questo sono necessari; perché forse, ancora, noi non abbiamo imparato.
Copertina rigida: 305 pagine
Editore: Mondadori (14 gennaio 2020)
Collana: Omnibus
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8804721952
ISBN-13: 978-8804721956
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