Trama
In una notte magica, a una settimana dal Giubileo secolare del 1899, l’ottantenne abate Francesco sente bussare al portoncino dell’abbazia di San Filippo al Marta e va ad aprire. Davanti a lui appaiono quattro viandanti che hanno percorso la Via Francigena diretti a Roma e quella notte è la loro penultima tappa del viaggio. L’incredibile è che per gli abiti che portano e per come parlano, è chiaro che i quattro viaggiatori non solo provengono da quattro diverse nazioni, ma soprattutto da quattro differenti epoche. Sono: Sigerico vescovo di Ramsbury del 990, Maria Rodriguez spagnola di umili origini che non sa più se è ebrea o cristiana del 1350, Goetz Von Berlichingen capitano di ventura tedesco di nobili ascendenti 1550, Jean Baptiste Fournier prima rivoluzionario ora facoltoso commerciante di vini francese 1825.
Com’è possibile ciò che sta accadendo e quali sorprese riserva quella notte? E per quale sortilegio, contemporaneamente all’arrivo dei viaggiatori, annunciato da sangue ed eventi inquietanti, è apparso il Diavolo a minacciare le vite di tutti loro?
Recensione a cura di Laura Pitzalis
Dal sud, dall’est, dall’ovest e dal nord convergono
i cammini che mi han condotto al mio segreto centro.
Jorge Luis Borges
Un libro molto originale sia nella trama che nella sua struttura. Un libro scritto a otto mani, con quattro stili diversi per quattro personaggi e ciò nonostante omogeneo nella stesura, molto scorrevole nella lettura, con racconti che s’incastrano tra loro completandosi in un finale che ci lascia piacevolmente colpiti. Un quadro storico dove la realtà si amalgama con la fantasia.
Il protagonista è una strada, anzi un percorso:
la Via Francigena.
Una piccola parentesi per una breve storia della via.
“Nell’Alto Medioevo, attorno al VII secolo, i Longobardi contendevano il territorio italiano ai Bizantini. L’esigenza strategica di collegare il Regno di Pavia e i ducati meridionali tramite una via sufficientemente sicura portò alla scelta di un itinerario sino ad allora considerato minore, che valicava l’Appennino in corrispondenza dell’attuale Passo della Cisa, e dopo la Valle del Magra si allontanava dalla costa in direzione di Lucca. Da qui, per non avvicinarsi troppo alle zone in mano bizantina, il percorso proseguiva per la Valle dell’Elsa per arrivare a Siena, e quindi attraverso le valli d’Arbia e d’Orcia, raggiungere la Val di Paglia e il territorio laziale, dove il tracciato s’immetteva nell’antica Via Cassia che conduceva a Roma. Il percorso, che prese il nome di
“Via di Monte Bardone”, dall’antico nome del Passo della Cisa, Mons Langobardorum, non era una vera e propria strada nel senso romano né tanto meno nel senso moderno del termine. Infatti, dopo la caduta dell’ impero, le antiche tratte consolari caddero in disuso, e tranne pochi casi finirono in rovina,
“rupte”, tant’è che risale a quell’epoca l’uso della parola “rotta”per definire la direzione da prendere.
I selciati romani lasciarono gradualmente il posto a fasci di sentieri, tracce, piste battute dal passaggio dei viandanti, che in genere si allargavano sul territorio per convergere in corrispondenza delle mansioni (centri abitati o ospitali dove si trovava alloggio per la notte), o presso alcuni passaggi obbligati come valichi o guadi. Il fondo era lastricato solo in corrispondenza degli attraversamenti dei centri abitati, mentre nei tratti di collegamento prevaleva la terra battuta.
Quando la dominazione Longobarda lasciò il posto a quella dei Franchi, anche la Via di Monte Bardone cambiò il nome in
Via Francigena, ovvero “strada originata dalla Francia”, nome quest’ultimo che oltre all’attuale territorio francese comprendeva la Valle del Reno e i Paesi Bassi.
In quel periodo crebbe anche il traffico lungo la Via che si affermò come il principale asse di collegamento tra nord e sud dell’Europa, lungo il quale transitavano mercanti, eserciti, pellegrini.”.
(Fonte: https://www.viefrancigene.org/it/Itinerario/Storia/)
A questa via si ricollegano,
su diverse linee temporali, i racconti dei protagonisti, che per cause e intenti diversi hanno percorso questa strada: chi per ricevere dalle mani del Pontefice il
pallium, il mantello simbolo della dignità arcivescovile che nel medioevo i vescovi dovevano recarsi a ritirare personalmente (Sigerico vescovo di Ramsbury); chi come ex voto per la guarigione dalla peste del figlio Pablo (Maria Rodriguez); chi per scopi puramente commerciali (Jean Baptiste Fournier); chi, disgustato dal conflitto fratricida esploso fra tedeschi cattolici e protestanti dopo la pubblicazione delle
tesi luterane, per pacificare la sua anima (Goetz Von Berlichingen).
Questi magici personaggi provenienti da luoghi ed epoche diverse, la notte del
17 dicembre 1899, a una settimana all’inizio del Giubileo Secolare, s’incontrano nel monastero viterbese di San Filippo al Marta, con l’ottantenne abate Francesco: e qui prende inizio una notte che sarà lunga e spaventosa, e qui che ci troviamo a leggere un altro libro …
Ai racconti dei vari personaggi e quindi a una narrazione sciolta, distensiva, a volte ironica e divertente si passa agli eventi che capitano in quella notte tetra e impetuosa dove facciamo conoscenza con
il Male che si manifesta in tutte le sue forme: serpente, bestia, drago, corvo …
Si passa quindi da un romanzo storico a un romanzo horror, caratterizzato da una narrazione dal ritmo incalzante, con colpi di scena e sequenze inquietanti, dove si raggiungono livelli di tensione davvero alti. Pura adrenalina che t’incolla alle pagine per conoscere come va a finire o forse … per paura!
Bravissimi gli autori che riescono a
intrecciare tra loro questi due generi con una continuità narrativa che non ti distrae, con una raffinata geometria che ti porta
a emozionarti con Maria quando vede, per la prima volta in vita sua, il mare:
Quando uscì dal bosco per un sentiero fiorito, Maria trovò il mare. Era sera.
Non l’aveva mai visto, lei, il mare. […]Trottando verso la battigia, Maria si sfilò una scarpa e poi l’altra, senza fermarsi, saltellando su un piede solo. […]C’era soltanto Maria. E il mare. E buio a perdita d’occhio, quello impietrito della spiaggia e quello morbido del Mediterraneo.[…] Maria si abbandonò all’odore di salsedine godendosi la sabbia sotto i piedi callosi. La corazza che finora l’aveva incrostata si stava sciogliendo nella magnificenza del creato. L’anima era pronta a sgorgare.
A sorridere quando Jean Baptiste “corregge” il sonetto di Leopardi “L’infinito”:
[…] Ah, a proposito, quando mi leggevate di uno dei vostri Idilli, L’Infinito, se non ricordo male, ho riflettuto e mi è piaciuto davvero tanto. Solo un appunto, se mi è permesso, nella prima frase: “Sempre caro mi è quest’ermo colle”, io lo metterei al passato remoto.[…] E, anche se tutta la poesia è scritta al presente, credo che indicando il passato lascereste intendere per quanto tempo vi è stato caro; assimila il concetto di nostalgia che traspare dall’opera. Pensateci su: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle‟. Secondo me suona meglio.
Ad addentrarci in un tunnel fatto d’immagini e scene terrificanti
[…] E da lì vede. Con gli occhi sbarrati e un muto grido di dolore e repulsione bloccato in gola, Francesco osserva il massacro. […]Gole squarciate da zanne abnormi, arti sradicati da brutalità irragionevoli, toraci trafitti da unghie inverosimili. Sangue per terra, ossa azzannate, sangue sul muro, bocche disperatamente aperte come buchi neri, budella srotolate che spurgano feci e urina, sangue spruzzato fino sul soffitto.
Togliendoci il respiro e accrescendo la suspence:
[…] Entrati chissà da dove senza far rumore, decine e decine di corvi si sono appollaiati dappertutto: sulle panche, sugli inginocchiatoi, sui confessionali e persino sul fonte battesimale, fino a occupare gran parte del pavimento. Praticamente li hanno circondati. […]Le vetrate policrome della cappella esplodono in mille schegge e una grandinata di becchi e artigli gonfia l’aria, pronta a schiantarsi sui viandanti.[…] Gli uccelli volteggiano, stridono, planano e attaccano in picchiata, strappando brandelli di vestiti e carne.
Molto accurata e particolareggiata la descrizione sia dei protagonisti, la cui caratterizzazione li rende ben tratteggiati e indimenticabili, sia dei luoghi e i paesaggi che s’incontrano nei diversi itinerari … e ti viene l’istinto di prendere zaino, scarponi, bastone e affiancarti a loro per librare lo sguardo nei tantissimi panorami che s’incontrano e inspirare profondamente i profumi inebrianti della natura.
Abilissimi poi nel riprodurre l’atmosfera horror di terrore e paura, passaggi che sono davvero un fuoco pirotecnico d’immagini chimeriche, figure mostruose, un’esplosione di rappresentazioni crude e violente … Alfred Hitchcock e Dario Argento docet!
Un libro che, nonostante le numerose pagine, ho divorato per la sua prosa degnissima, il ritmo sostenuto, la brillantezza dei dialoghi e ancora di più la profondità dell’analisi psicologica degli personaggi. Da non dimenticare il sotto-testo che restituisce uno spaccato attendibile di un periodo di mille anni , occasione per imparare qualcosa e arricchire la mia cultura storica.
Un romanzo che incanta e fa riflettere, che riesce a commuovere, che fa sorridere ma anche rabbrividire e impaurire. Un’opera così ricca di significati da renderla complessa e affascinante al tempo stesso, ma assolutamente facile da leggere e comprensibile per chiunque.
Copertina flessibile: 520 pagine
Editore: David and Matthaus (27 marzo 2019)
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8869841782
ISBN-13: 978-8869841781
Link di acquisto cartaceo: Di gelo e di fuoco
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