La morte nera (seconda parte) – a cura di Salvatore Argiolas
Salvatore Argiolas
Quando il bacillo della peste arrivò a Messina nel 1347 il territorio italiano ospitava tre delle quattro città europee che superavano i 100.000 abitanti (Firenze, Venezia e Genova) mentre Milano, Bologna, Roma, Napoli e Palermo avevano circa 50.000 abitanti e la densità demografica era la maggiore in Europa, superiore ai 30 abitanti per chilometro quadrato.
Oltre che il territorio più popolato quello italiano era anche, con le Fiandre, quello più agiato ma la crisi economica aveva già indebolito le strutture portanti della società.
Un motivo ulteriore di depressione fu causato dell’inesorabile avanzata araba in Asia e in Africa che chiuse i porti del Levante riducendo in modo drastico i commerci e che spostò l’asse politico-economico del mondo europeo occidentale dal Mediterraneo al nord, in special modo nei territori compresi tra il Rodano ed il Reno come sostenuto da Henry Pirenne nel suo saggio “Maometto e Carlomagno”.
La situazione politica era molto confusa e le tensioni sociali venivano tenute sotto controllo a fatica. A Firenze in seguito ad una grave crisi economica e al fallimento di numerose banche nel 1342 si arrivò alla dittatura del Duca di Atene che, però già nell’anno successivo, fu cacciato dalla città mentre a Roma nel 1347 Cola di Rienzo si fece nominare tribuno del popolo, ma anche il suo tentativo di riforma durò poco e fu costretto a fuggire dall’Urbe alla fine dell’anno.
Una testimonianza che il sentimento del tempo fosse molto cupo viene dagli affreschi del Camposanto di Pisa eseguiti da Buffalmacco, pittore poi protagonista del “Decameron” di Boccaccio, e in particolare “Il Trionfo della Morte”, databile dal 1336 al 1341, che rappresenta la tragedia della morte che incombe su di un’allegra brigata.
Da Messina il contagio si sparse velocemente in tutta la Sicilia malgrado l’isola si trovasse in una specie di stato di emergenza e molti comuni si rifiutassero di accogliere i fuggiaschi provenienti dalla città dello Stretto anche con la minaccia di scomunica.
Dalla Sicilia le navi con i marinai infettati dalla peste raggiunsero rapidamente le città portuali della costa adriatica e del Mar Tirreno, prime fra tutte Venezia, Pisa e Genova. A Genova, nelle settimane successive, lanciando torce incendiarie, si cercò persino di impedire l’attracco alle navi cariche di spezie provenienti dall’Oriente.
Gli abitanti sapevano ormai che anche il solo trattenersi a conversare con i marinai malati poteva avere conseguenze mortali. Nel golfo davanti alla costa le navi, i cui equipaggi erano morti in mare, andavano alla deriva. Quando una di queste navi che non aveva potuto gettare l’ancora in Italia venne segretamente scaricata a Marsiglia, il porto, la città e i dintorni della località francese furono contagiati in pochissimo tempo.
Dai porti l’epidemia raggiunse rapidamente anche l’entroterra e così da Genova si spinse negli Appennini e in Lombardia. Alla fine la peste raggiunse anche Piacenza dove si verificarono scene drammatiche, come racconta Gabriele de Mussis: “La morte mieteva vittime ed era così crudele che gli uomini potevano a malapena respirare. Quelli che erano ancora in vita non facevano altro che prepararsi alla propria sepoltura. E siccome veniva a mancare il terreno per le tombe si era costretti a scavare delle fosse anche sotto i portici e le strade dove mai prima di allora vi erano stati dei sepolcri…”.
Attraverso Piacenza furono raggiunte le vie commerciali della pianura padana ma Milano fu incredibilmente risparmiata dalla catastrofe. Con estrema fermezza l’arcivescovo Giovanni Visconti impedì qualsiasi contatto con persone provenienti da zone colpite dalla peste ordinando che le prime tre case in cui si era accertata la peste venissero murate con dentro i loro occupanti, sani, malati e morti tutti insieme in un unica tomba.
Per merito di questa draconiana tempestività Milano pianse pochissime vittime mentre nel resto d’Italia rapidamente la catastrofe raggiunse ogni città.
A Siena, dove la peste uccise oltre la metà della popolazione, nella grande cattedrale destinata ad essere la più vasta del mondo i lavori furono abbandonati a causa dei decessi tra le maestranze e gli operai nonché “la tristezza e l’angoscia” dei sopravvissuti.
Ancora oggi, lungo l’attuale piazza Jacopo della Quercia, possiamo scorgere i segni di quel grandioso progetto, attraverso i basamenti delle colonne ed il celebre e rinomato “facciatone”, nuova ed incompiuta facciata rivolta verso sud che resta a testimonianza perenne della falcidia operata dalla morte.
Come se fosse davvero arrivata la fine del mondo la comparsa del morbo sul continente europeo, nel gennaio del 1348, coincise con uno spaventoso terremoto che fece enormi danni dall’Austria sino a Venezia e la distruzione arrivò fino in Slovenia e in Lombardia mentre il sisma fu percepito chiaramente anche a Pisa ed in Germania.
L’Italia, che aveva una popolazione totale che andava da 10 a 11 milioni di persone, pagò probabilmente il prezzo più pesante.
A Pisa la peste durò dalla primavera fino al mese di settembre del 1348 e “si seppellivano sino a cinquecento uomini al giorno” mentre a Siena imperversò da aprile a ottobre.
Agnolo di Tura, uno dei più grandi cronisti italiani del XIV secolo descrisse “la grande Mortalità, la maggiore, e la più oscura, e la più horribile” che la città avesse mai visto. Fu incalcolabile il numero dei morti tra gli abitanti e lo stesso Agnolo perse cinque figli che dovette seppellire di persona.
Nel 1348 Siena lamentò la perdita anche di due dei suoi pittori più importanti, i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti.
Roma fu raggiunta dalla peste nell’estate del 1348. La città di allora, pressoché spopolata in seguito all’esilio dei papi ad Avignone, avrebbe perso all’incirca la metà dei suoi abitanti. Certamente la città guadagnò maggiore importanza con la proclamazione dell’anno giubilare per il 1350, giubileo che attirò pellegrini da tutta Europa e probabilmente favorì anche la diffusione della peste nera.
I maggiori ragguagli storici sul contagio nella peste sono documentati per Venezia e per Firenze, infatti per nessun’altra città d’Europa si sono conservate così tante testimonianze sulle reazioni delle popolazione come quelle disponibili per queste due città.
Sulla base della cronaca di Andrea Dandolo (1360 circa) doge nonché storiografo, a Venezia, nel XIV secolo una delle città senza dubbio più potenti del continente, morì “el terzo deli habitadori”.
La più completa descrizione della peste a Venezia viene da Lorenzo de Monacis che a distanza di alcuni decenni dalla catastrofe raccolse minuziosamente documenti integrati con i racconti dei sopravvissuti.
“Fin dall’inizio la peste strappò via, nell’arco di pochi giorni, eminenti personalità, giudici e funzionari che erano stati eletti membri del Maggior Consiglio e poi anche quelli che erano loro subentrati nella carica. Nel mese di maggio si registrò un tale inasprimento dell’epidemia che divenne contagiosa al punto che piazze, cortili, tombe e cimiteri non riuscivano più a contenere i cadaveri”.
La peste che nell’anno 1348 funestò la città di Firenze divenne famosa in tutto il mondo attraverso la descrizione letteraria che ne fa il Boccaccio nell’introduzione del “Decameron” dove l’autore lascia una descrizione della vita quotidiana in tempo di peste. Accenna all’impotenza delle autorità e dei medici, al crescente disprezzo delle leggi, alla disperazione delle masse e alle differenti forme della malattia.
Come racconta il cronista Marchionne di Coppo Stefani, i cadaveri vennero ammucchiati a strati gli uni sopra gli altri. Le messe e le processioni supplicatorie caratterizzavano la vita quotidiana e siccome dalle campagne molti erano fuggiti in città a Firenze morirono più persone di quanto il numero di abitanti potesse lasciar prevedere, al punto che Boccaccio parlò di circa centomila decessi.