Articolo a cura di Salvatore Argiolas
Il contributo di Umberto Eco alla letteratura gialla non è limitato ai suoi romanzi “Il nome della rosa” e “Il pendolo di Foucault” (ma non dobbiamo dimenticare che in “Baudolino” è presente una pregevole “camera chiusa”) ma bisogna attribuirgli anche il merito di una grande attività analitica, dispersa in tanti suoi saggi e specialmente nella cura del volume “Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce”.
In questo saggio Eco, assieme al linguista Thomas A. Sebeok, raccoglie diversi contributi che esplorano con rigore e passione il momento topico di ogni indagine poliziesca, l’intuizione che porta alla soluzione del mistero.
Eco, fedele al suo motto che “quello che non si può teorizzare si deve narrare” traspose queste teorie nel suo romanzo più famoso e più riuscito, “Il nome della rosa”.
“Il segno dei tre”, titolo che allude al titolo del romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, “Il segno dei quattro”, mette anche in evidenza anche il tratto fondamentale della filosofia di Charles Sanders Peirce, scienziato americano nato nel 1839, ovvero il segno.
Per Peirce, uno dei padri della semiotica, il segno è il punto di partenza per la conoscenza del mondo e ogni segno genera altri segni per la concatenazione completa e infinita che è il fulcro stesso della conoscenza.
Per la cultura anglosassone Holmes è una figura fondamentale del pensiero mentre in Italia viene spesso considerato solo un personaggio quasi folkoristico e destinato al divertimento dei ragazzi. Eco, con questo saggio vuole portarlo al livello che gli spetta e lo mette in relazione diretta alla filosofia peirceiana.
Il tratto più spettacolare e affascinante di Holmes, diretto discendente di Auguste Dupin, l’eroe di Edgar Allan Poe, è la deduzione (che, vedremo, deduzione, non è) che gli permette di risolvere i casi più problematici e oscuri.
In “Il segno dei quattro” (naturalmente!) Holmes inferisce dal fango sulle scarpe di Watson che il buon dottore è andato all’ufficio postale per spedire un telegramma:
“L’osservazione mi dice che avete del fango rossiccio sul collo delle scarpe. Proprio di fronte all’ufficio di Wigmore Street hanno divelto il selciato e ammucchiato della terra in modo che nell’entrarvi si è costretti a calpestarla. Quella terra è di un particolare colore rossiccio che non si trova, per quanto ne so, in nessun altro posto qui vicino. Fin qui è osservazione, il resto è deduzione.”
“E come avete fatto a dedurre il telegramma?”
“Diamine, naturalmente sapevo che non avevate scritto una lettera, perché vi sono stato seduto di fronte per tutta la mattinata. Vedo poi che tenete un foglio di francobolli e un bel pacco di cartoline postali nella vostra scrivania aperta. E cosa sareste andato a fare in un ufficio postale se non a spedire un telegramma? Eliminati gli altri fattori, quello che rimane deve essere la verità.”
Qui però il detective bara. La deduzione ha una gerarchia rigida del tipo:
Ogni uomo è mortale.
Platone è un uomo.
Platone è mortale.
Peirce chiama quella di Holmes “abduzione” o “ragionamento ipotetico” perché Watson può essere andato in Wigmore Street per mille altri motivi, per incontrare un’amante, per visitare un paziente o anche per andare dal verduraio accanto ma Holmes sceglie la versione più confacente al suo modo di pensare essendo la spiegazione più “economica” secondo il celebre rasoio di Occam: « A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire »
Per Peirce le inferenze possono essere di tre tipi, Deduzione, Induzione e Abduzione
DEDUZIONE
Regola: Tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia
Caso: Questa era una ferita grave da coltello
Risultato: Si ebbe emorragia
INDUZIONE
Regola: Questa era una ferita grave da coltello
Caso: Si ebbe emorragia
Risultato: Tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia
ABDUZIONE
Regola: Tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia
Caso: Si ebbe emorragia
Risultato: Questa era una ferita grave da coltello
Come si vede l’abduzione consente una grande libertà d’azione e permette un enorme inventiva ma può portare a conclusioni totalmente diverse dalle aspettative e per dirla tutta, come diceva anche Peirce, consiste anche nel tirare ad indovinare. L’abduzione si fonda su un fatto singolo, che talora si presenta enigmatico, inspiegabile: l’osservatore lancia allora un ipotesi gettando azzardatamente nella realtà un’idea.
Questo è un esempio di abduzione tratto dalla letteratura classica:
Un giorno, mentre passeggiava vicino ad un boschetto, vide correre verso di lui un eunuco della regina, seguito da molti ufficiali che sembravano in preda alla più viva inquietudine, e che correvano qua e là come uomini smarriti che cercano ciò che hanno perduto di più prezioso. «Quel giovane,» lo abbordò il primo eunuco, «avete visto per caso il cane della regina?» Zadig rispose con modestia: «Era una cagna, non un cane.» «Avete ragione,» rispose il primo eunuco. «E una spagnola molto piccola,» aggiunse Zadig, «e ha avuto da poco i canini; zoppica dal piede sinistro anteriore e ha le orecchie molto lunghe.» «L’avete dunque vista?» disse il primo eunuco tutto trafelato. «No,» rispose Zadig, «non l’ho mai vista, e non ho mai saputo se la regina avesse o no una cagna.»
Proprio in quel momento, per una delle frequenti stranezze della sorte, il più bel cavallo della scuderia del re era scappato dalle mani di un palafreniere nelle pianure di Babilonia. Il capocaccia e tutti gli altri ufficiali gli correvano dietro con altrettanta inquietudine del primo eunuco alla ricerca della cagna. Il capocaccia si rivolse a Zadig e gli domandò se per caso avesse visto passare il cavallo del re. «È il cavallo che galoppa meglio,» rispose Zadig, «è alto cinque piedi, ha lo zoccolo molto piccolo; ha una coda di tre piedi e mezzo; le borchie del suo morso sono d’oro a ventitré carati; i suoi ferri sono d’argento a undici denari.» «Che cammino ha preso? dov’è?» domandò il capocaccia. «Ma io non l’ho visto,» rispose Zadig, «e non ne ho mai sentito parlare prima d’ora.»
Il capocaccia e il primo eunuco non ebbero alcun dubbio che Zadig avesse rubato il cavallo del re e la cagna della regina; lo fecero condurre davanti all’assemblea del gran desterham, che lo condannò al knut e a passare il resto dei suoi giorni in Siberia. Era appena stata pronunciata la sentenza che furono ritrovati il cavallo e la cagna. I giudici si trovarono nella dolorosa necessità dì correggere la loro sentenza; ma condannarono Zadig a pagare quattrocento once d’oro per aver detto che non aveva visto ciò che invece aveva visto. Fu giocoforza pagare questa multa; dopodiché fu permesso a Zadig di difendere la propria causa davanti al consiglio del gran desterham; egli parlò in questi termini:
«Stelle di giustizia, abissi di scienza, specchi di virtù, che avete la pesantezza del piombo, la durezza del ferro, lo splendore del diamante e molte affinità con l’oro! Poiché mi è permesso parlare davanti a quest’augusta assemblea, vi giuro per Orosmad che non ho mai visto la rispettabile cagna della regina, né il sacro cavallo del re dei re. Ecco quanto mi è accaduto. Passeggiavo nei pressi di un boschetto dove ho poi incontrato il venerabile eunuco e l’illustrissimo capocaccia. Ho visto sulla sabbia le tracce di un animale, e ho giudicato facilmente che si trattava delle tracce di un piccolo cane. Dei solchi leggeri e lunghi, impressi sopra piccoli mucchi di sabbia, tra le tracce delle zampe, mi hanno fatto capire che si trattava di una cagna le cui mammelle erano pendule e che pertanto aveva avuto dei piccoli pochi giorni prima. Altre tracce, in un senso differente, che sembravano ugualmente aver rasentato la superficie della sabbia vicino alle zampe anteriori, mi hanno fatto comprendere che aveva le orecchie molto lunghe; e, poiché ho notato che la sabbia era sempre meno scavata da una zampa che dalle altre tre, ho capito che la cagna della nostra augusta regina era un po’ zoppicante, se mi è lecito osare esprimermi in questo modo.
«Quanto al cavallo del re dei re, sappiate che, passeggiando per i sentieri di questo bosco, ho scorto le tracce dei ferri di un cavallo; esse erano tutte ad eguale distanza. “Ecco,” mi son detto, “un cavallo dal galoppo perfetto.” In una strada stretta, che non misura più di sette piedi di larghezza, la polvere era un po’ spazzata via dagli alberi a sinistra e a destra, a tre piedi e mezzo dal centro della strada. “Questo cavallo,” mi son detto, “ha una coda di tre piedi e mezzo, che con i suoi movimenti a sinistra e a destra ha spazzato via la polvere.” Ho visto sotto gli alberi, che formavano un pergolato dell’altezza di cinque piedi, le foglie da poco staccate dai rami, e ho capito che quel cavallo era arrivato fin lì, e che dunque doveva avere un’altezza di cinque piedi. Quanto al suo morso, deve essere d’oro a ventitré carati: infatti ha strofinato le borchie contro una pietra, che ho riconosciuto essere una pietra di paragone e che ho voluto provare. Ho giudicato infine dai segni che i suoi ferri hanno lasciato su alcuni sassi di un’altra specie, che era ferrato in argento della purezza di undici denari.»Da “Zadig” di Voltaire
La sequenza di cui sopra, vi ricorda qualche altra scena molto famosa della nostra letteratura?
Ecco come Guglielmo da Baskerville meraviglia i monaci dell’abbazia che cercano un cavallo con un’abduzione simile ne “Il nome della rosa”:
Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità: “Benvenuto signore,” disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”
“Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro, “e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l’inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame, dovrà fermarsi. E’ troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso…”
“Quando lo avete visto?” domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale non può che essere là dove io ho detto.”
Il cellario esitò. Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: “Brunello? Come sapete?”
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall’Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. E’ andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.”
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
“Mio buon Adso,” disse il maestro. “E’ tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che
omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum
e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere. Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità — così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.”
“Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi…”
“Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige «ut sit exiguum caput et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas». Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se,» e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, «è un dotto benedettino…»”.
“Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?”
“Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro. “Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome più naturale?
Come si vede l’abduzione è l’arte della congettura e permette un’infinità di collegamenti però necessita di una conoscenza del mondo molto vasta per poter raggruppare in un ipotesi possibile indizi tanto difformi.
Guglielmo può azzardare una teoria simile perché ha nella sua visione del mondo molti “segni” che gli permettono di azzardare una soluzione come nel caso del nome “Brunello” che solo un erudito poteva immaginare.
L’abduzione è una potente arma che però ha come prerequisito una struttura sinaptica molto sfrontata e particolare. Questo fatto spiega spesso come mai il detective che dice di avere la soluzione in mano, traccheggia e tira in lungo prima di svelare il mistero. A parte la necessità di creare il necessario pathos e di rendere omogeneo il romanzo, l’investigatore ha sempre bisogno di trovare piano piano i “segni” che confermano l’ipotesi data.
Il ragionamento ipotetico
Il metodo di indagine di Sherlock Holmes è particolare come si vede analizzando il suo romanzo d’esordio “Uno studio in rosso”.
Holmes viene convocato nel luogo del delitto da una lettera di Gregson, un investigatore di Scotland Yard. In questo momento ha nel suo bagaglio di conoscenze solo il fatto che la sera prima ha piovuto dopo una settimana di siccità.
Appena giunto sul posto osserva i solchi lasciati sul fango da un’altra carrozza davanti alla casa dove è avvenuto il delitto. La carreggiata della carrozza corrisponde a quella delle tipiche vetture pubbliche e le impronte lasciate dal cavallo lasciano intendere che sia rimasto a lungo incustodito.
Holmes da questi labili indizi conclude che la carrozza è arrivata di notte ed è stata lasciata incustodita e da ciò discende che il vetturino dev’essere coinvolto nel fattaccio. Cercando altre tracce Holmes trova due serie di impronte di scarpe, una di scarpe con la punta quadrata e l’altra di scarpe eleganti. Siccome quelle con la punta quadrata scavalcano una pozzanghera di un metro e venti è probabile che siano di un giovane mentre le altre impronte la aggirano.
Quando Sherlock Holmes incontra Lestrade, il secondo ispettore di polizia, gli chiede se qualcuno sia giunto in casa quella mattina e riceve una risposta negativa, confermando la sua ipotesi che la carrozza sia arrivata di notte con l’assassino.
Una volta che il detective entra in casa vede la scena del delitto e ciò che vede, il cadavere con ai piedi delle scarpe eleganti, conferma ancor di più il castello teorico, l’assassino è il vetturino non potendo essere la vittima né l’uno né l’altro.
In questo modo Holmes da dati slegati tra di loro e che potrebbero portare a tante ipotesi riesce a creare un’abduzione vincente. Lui parte dall’osservazione, dal rilievo e dall’accostamento di più dati eterogenei (induzione), avanza quindi un’ipotesi per spiegare o interpretare i fatti osservati, per individuare cause possibili degli eventi risultati (abduzione), esplicita analiticamente le conseguenze inerenti alle ipotesi postulate (deduzione), mette alla prova le ipotesi e le conseguenze dedotte dalle ipotesi (induzione). Così le ipotesi a mano a mano escogitate e selezionate, finiscono per formare una rete convergente verso l’individuazione dell’ipotesi fondamentale: l’identità dell’assassino.
Benchè in diverse occasioni come nel “Segno dei quattro” Holmes sostenga piccato di non tirare mai ad indovinare, nel suo modo di procedere nell’indagine si nota nella sua procedura mentale una costante selezione della migliore ipotesi, come postulava Peirce, perchè l’ipotesi migliore è quella più semplice e naturale come sapeva bene anche Guglielmo da Occam con il suo rasoio: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.“ (A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire).
Del resto la massima preferita di Holmes è “Quando hai escluso l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, dev’essere la verità.”
Per raggiungere un’ipotesi sostenibile e credibile Holmes ha bisogno di raccogliere il maggior numero di dati possibili per sottoporli ad una severa scrematura ma avendoli tutti sempre presenti perché “E’ un errore capitale teorizzare senza avere dati. Si comincia senza accorgersene ad adattare i fatti alla teoria, invece che le teorie ai fatti. (Uno scandalo in Boemia) e “La tentazione di formare teorie premature sulla base di dati insufficienti è il veleno della nostra professione. (La valle della paura)
La metodologia investigativa di Holmes risente in modo fondamentale della forma mentis del suo autore il dottor Arthur Conan Doyle che come ogni buon medico aveva un occhio particolare per i dettagli e per gli indizi nascosti nel modo di comportarsi e nel vestiario dei pazienti e i colpi di scena deduttivi sono spesso costruiti ad arte come dice lo stesso Holmes in “I pupazzi ballerini”:
“Non è molto difficile costruire una serie di inferenze, ognuna dipendente dalla precedente e ognuna in sé semplice. Se, dopo averlo fatto, si eliminano semplicemente tutte le inferenza centrali e si presenta ad un pubblico il punto iniziale e la conclusione, si può produrre un effetto strabiliante, benché sotto un certo aspetto, grossolano.” e “ogni problema diventa un gioco da ragazzi una volta spiegato”.
Semplice o no, il metodo holmesiano ha avuto un successo incredibile ed ha allevato tantissimi detective che hanno fatto dell’abduzione la loro stella polare che li guida per mano nei casi più intricati e tra cui spicca Ellery Queen, il più dotato e più intelligente di questi segugi, con il suo “enigma deduttivo formale”.