I segreti dei Templari
rubrica di Luigi Nardi
3° appuntamento – Il processo
All’alba del 13 ottobre 1307 le forze di polizia reali irruppero nelle commende francesi dei Templari ed arrestarono i membri dell’ordine con l’accusa di eresia. Furono imprigionati, secondo le stime storiche, 546 confratelli, mentre ufficialmente riuscirono a sfuggirne solo 12, tra cui il Precettore di Francia Gerardo di Villers. I capi dell’ordine, che tradizionalmente mantenevano stretti legami con la casa reale, questa volta non ebbero informazioni né presentimenti, tanto che Giacomo de Molay, il Gran Maestro, alla vigilia dell’arresto aveva persino ascoltato una messa insieme al re di Francia Filippo IV. Per molto tempo si è cercato di capire il motivo che spinse Filippo a indire il processo ai Templari. Ininfluente è, infatti, se le accuse contro di loro fossero plausibili o no: il processo non si sarebbe mai tenuto se il re di Francia non lo avesse sollecitato con tutte le sue forze. La maggior parte degli autori sospetta che dietro tale azione si nascondesse cupidigia poiché la costante aspirazione all’oro di Filippo nel corso del suo regno si era tramutata progressivamente in ossessione. Martin Bauer afferma che già nel 1291, afflitto da una cronica mancanza di fondi, si era messo contro i banchieri lombardi e nel 1305 contro gli Ebrei, e in entrambi i casi aveva usato lo stesso metodo: faceva arrestare coloro che potevano permettersi di “ricomprare” la libertà con un appropriato riscatto. Sebbene i contrasti sulla presunta ricchezza della confraternita siano ancora estremamente attuali, è certo che i Templari possedessero diverse aziende agricole in tutta la Francia, ed era lecito aspettarsi che questo ispirasse i sogni di conquista di una monarchia al verde! Accanto alle considerazione finanziarie, che ebbero certamente importanza per il re, vi erano però altri motivi di politica interna a stimolare il desiderio di sopprimere l’organizzazione. A quel tempo Filippo si faceva portavoce di una rivendicazione universale nel regno e, se lo avesse sciolto, l’ordine non avrebbe più potuto in alcun modo contrastare i suoi progetti. Inoltre, condannando i Templari, egli sperava di indebolire il Papa. Nel 1303 Filippo già aveva dimostrato con quanta risolutezza e brutalità potesse agire nella lotta di potere contro il soglio pontificio: aveva fatto arrestare il Papa Bonifacio VIII. Secondo le teorie della storica Monika Hauf esiste un’altra, determinante ragione: l’odio. I Templari avrebbero rifiutato a Filippo la possibilità di diventare membro onorario dell’ordine, cosa di cui avevano goduto in precedenza anche Papa Innocenzo III e Riccardo Cuor di Leone. Una ragione apparentemente debole rispetto alle altre, ma l’orgoglio ferito del re avrebbe realmente giocato un ruolo importante. E’ anche presumibile che il proverbiale comportamento impertinente dei cavalieri di Cristo sarebbe stata una causa scatenante non poco condizionante. La loro arroganza aveva già provocato diversi principi d’Europa: a metà del XIII secolo l’imperatore tedesco Federico II con una lettera di fuoco alle altre casate reali dell’Occidente denunciava a buon diritto la loro superbia, come dimostra l’estratto di uno scritto dei Templari al re inglese Enrico III, citato da Andrew Sinclair: “Oh se la vostra bocca non balbettasse simili sgradevoli sciocchezze”. Cupidigia, sete di potere e forse perfino odio erano quindi i probabili motivi che spinsero Filippo a intentare il processo. Per farlo, dovette innanzitutto legalizzare l’arresto onde ottenere il permesso del Papa, ma Clemente V indugiava, in attesa che capitasse qualche cosa di imprevisto. In effetti, Giacomo de Molay in persona aveva pregato il pontefice di aprire un revisione al processo. Il 24 agosto 1307 il Papa comunicò al re che avrebbe aperto un’inchiesta ufficiale sull’ordine dei Templari, i quali, per il momento si sentirono tutelati. L’ondata di arresti del 13 ottobre giunse, quindi, non solo violenta ma anche inaspettata. Tutto, in verità, era stato pianificato: molto prima di quella data erano pervenute ai Baillis (i capi della polizia) delle province lettere sigillate contenenti le disposizioni circa il rastrellamento dei confratelli e, soprattutto, le accuse contro l’organizzazione. Tra queste: negazione di Cristo, disprezzo per i Sacramenti, omosessualità, venerazione di idoli, assoluzione data dai laici. Bauer evidenzia un particolare rilevante: salta subito all’occhio che la lista delle imputazioni altro non è che un elenco di misfatti contro la società medievale e, per questo, adatta a distruggere per sempre la reputazione della confraternita. L’idolatria, ovvero l’adorazione di un capo magico, occupava uno spazio determinante nel processo poiché avvicinava i Templari all’Islam: l’Europa cristiana del XIV secolo riteneva, erroneamente, che i Musulmani fossero degli idolatri. Nonostante numerose ricerche, gli accusatori trovarono un’unica imitazione di una statuetta da annotare tra i “reperti”: il celebre Caput LVIII, letteralmente “Capo 58”. Si trattava di un piccolo scrigno a forma di testa umana che scatenò diverse considerazioni: per qualche autore era solo un reliquiario (molto diffusi all’epoca), per altri solo un cofanetto dalla foggia singolare, ma lo studioso Louis Charpentier ritiene che il forziere contenesse due piccole teste appartenute a Santi. Andrew Sinclair avalla il giudizio aggiungendo che una di quelle teste fosse addirittura quella di Gesù Cristo. Attenendosi ai registri storici del processo, Hartwig Sippel rammenta la confessione di un Templare che parlò di “un uomo barbuto con l’aspetto di Baphomet”. Forse alludeva al profeta Maometto, il cui nome in francese, Mahomet, sarebbe stato poi deformato appunto in Baphomet, circostanza che quindi associava l’ordine all’Islam (oggi sappiamo che questa è una considerazione del tutto scorretta ma la cristianità medievale ignorava che la fede musulmana proibisce qualsiasi raffigurazione). Forse Baphomet deriva da Bafh (battesimo) e Meteos (ordinazione), forse, più astrusamente, è la contrazione tra Battista (Giovanni Battista) e Maometto, o ancora si lega al porto cipriota di Baffo, in cui sorgeva un famoso Tempio. Lo storico Peter Partner nel suo libro I Templari ne parla così:“Molti cavalieri rinnegarono l’idolo, ma quelli che non lo fecero tesero a dare sfogo alla loro fantasia e lo descrissero come un teschio, come un reliquario, come un gatto, come due o tre gatti, come pittura su una trave o su un muro, come una testa d’uomo con una lunga barba. Una corda doveva essere passata attorno all’idolo e poi il Templare lo avrebbe dovuto portare a contatto con la pelle”.Ad ogni modo, a dispetto di tali diversificate congetture, Charpentier era sicuro che Baphomet derivasse da Bapheus mété, traducibile in “tintori della luna”, in riferimento agli alchimisti che trasformavano l’argento (colore della luna) in oro. In altre parole secondo lo storico i Templari possedevano il segreto della Pietra Filosofale. Le presunte dichiarazioni dei condannati, pur appartenendo a verbali effettivamente rinvenuti, è probabile abbiano anche fatto capo non solo alla fantasia degli inquirenti che li redigevano, ma anche alla rassegnazione degli inquisiti, i quali, pur di sottrarsi all’abominio della tortura, resero confessioni spesso inventate e di certo forzate e confusionarie. Enzo Valentini ne riporta uno stralcio nello speciale La storia dei Templari, nel BBC History Magazine del gennaio 2016. Un templare inglese nel 1308, scrive Valentini, dichiarò che la tortura ha lo scopo “non di stabilire la verità ma di fare un sospettato un colpevole” ed è risaputo dai registri che nel 1309 frà Jean de Tourville confessò il peccato di sodomia a causa delle sevizie subite per mesi. La tortura negli interrogatori era ammessa ufficialmente dalla Chiesa a seguito della bolla Ad extirpanda del 1252, e sebbene essa raccomandasse di non procurare menomazioni fisiche ai prigionieri e venisse indentificata come la soluzione estrema per coloro che non confessavano spontaneamente, la pratica ebbe un tale fiorente utilizzo da corrompere in breve tempo i dettami che ne avevano decretato la nascita. Di frequente era sufficiente “prometterla” per incutere terrore: Aimeri de Villiers-le-Duc testimoniò contro l’ordine solo per timore di essere “sottoposto ai ferri”. Boia e aguzzini erano soliti lasciarsi travolgere dall’entusiasmo! A Parigi, si contano 53 Templari uccisi dal troppo zelo dei torturatori, anche se l’inquisitore Guglielmo di Plaisians affermò si fossero suicidati. A Ravenna, come a Cipro, non si eseguirono torture e il processo tenuto dall’allora arcivescovo Rinaldo da Concorezzo assolse i condannati in tutto il nord Italia. Il pontefice (presumibilmente pressato da Filippo IV) ne fu scandalizzato e ordinò una seconda inchiesta a Firenze secondo i canoni più rigidi. In effetti i capi d’accusa, principalmente legati all’eresia, costringevano Filippo a rimettere nelle mani della Chiesa il giudizio finale, sebbene nel frattempo egli non avesse perso tempo nel requisire i loro beni per custodirli devotamente. L’aperta ipocrisia del sovrano non andò a genio a molti reali europei: in un dispaccio accorato inviato ai potenti del tempo, Filippo sottolineava il personale sgomento circa gli oscuri segreti svelati sui Templari e la sofferta scelta di procedere agli arresti, e suggerì un totale coinvolgimento delle casate regnanti nella cattura dei confratelli in ogni angolo del continente. Avendo riconosciuto la falsità di Filippo, ma più probabilmente per avversione storica, Edoardo II d’Inghilterra reagì indignato e consigliò ai sovrani di Portogallo, Castiglia, Aragona e Sicilia di non credere alle calunnie del francese, diffuse solo per cupidigia. Appellandosi con tale finzione agli altri Stati e trattando i Templari in modo tanto scandaloso (l’uso della tortura per estorcere confessioni), Filippo si attirò sia il livore dei rivali politici che quello del soglio pontificio. Era come se volesse dimostrare al mondo chi davvero governasse la Francia (va ricordato che al tempo la sede papale si trovava ad Avignone, non a Roma). Malgrado la ripugnanza il 22 novembre 1307 Clemente V, già ricordato come un papa fragile e influenzabile, emanò la bolla Pastoralis praeminentiae con la quale non faceva menzione dell’innocenza dei Templari e, al contrario, ne comandava l’arresto in tutta Europa e a Cipro con la relativa confisca dei beni. L’accusa di eresia fu il solo, inesorabile sprone che convinse Castiglia e Portogallo a dare adito alla volontà papale. Anche l’Inghilterra, pena il rischio di scomunica, fu costretta a procedere al rastrellamento dei Templari (cosa che avvenne simultaneamente l’8 gennaio del 1307, sulla falsa riga dell’azione condotta in Francia). Con la sua bolla, Clemente V decretò di fatto il tramonto dell’ordine, aprendo una procedura di interrogatori, torture e condanne che sfociò nell’atto conclusivo del 18 marzo 1314, quando Giacomo de Molay venne bruciato sul rogo.