Omero – Iliade
a cura di Laura Caputo
L’attività svolta da aedi e cantori presso le corti di nobili aristocratici viene descritta per la prima volta nell’Odissea. Cito il passo: “Venne l’araldo guidando il valente cantore./ Molto la Musa lo amò e gli diede il bene ed il male:/ gli tolse gli occhi ma il dolce canto gli diede”. L’araldo guida l’aedo al banchetto allestito presso la reggia di Alcinoo, re dei Feaci. Demodoco infatti è cieco perché – come tutti i cantori e i poeti – è dotato dalle Muse di una seconda vista, segno di una sapienza superiore. A quel punto, spinto dall’ispirazione divina e accompagnato dal suono della cetra, inizia il suo canto davanti ai cortigiani e all’inaspettato ospite Ulisse: “Poi quando ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo,/ la Musa indusse l’aedo a cantare le glorie degli uomini,/ da un tema la cui fama raggiungeva il vasto cielo,/ la lite di Odisseo e del Pelide Achille,/…” (canto VIII, vv. 62 sgg).
Ed è proprio la storia di quella lite e le sue conseguenze che l’Iliade racconta.
Si potrebbe immaginare dunque che Omero stesso abbia voluto trasmettere un’immagine di sé, ma – se invece decidiamo di spogliarlo dalle vesti leggendarie che sempre lo hanno adornato e anche un po’ nascosto – dobbiamo tristemente ammettere che non ne conosciamo né il luogo né la data di nascita benché per un paio di millenni cinque città si siano contese l’onore di avergli dato i natali intorno al VIII secolo a.c. Le numerose statue a lui dedicate ce ne mostrano le fattezze, ma non sappiamo chi abbia mai ispirato il primo scultore, infatti nessuna di esse è del presunto periodo in cui Omero avrebbe potuto vivere.
C’è perfino uno studioso italiano, l’ingegnere nucleare Felice Vinci, il quale sostiene che l’Iliade e l’Odissea non ebbero per teatro il Mediterraneo, come tradizionalmente si ritiene, ma il Mar Baltico. Avremmo dunque un Omero nordico, senza tener conto però dei ritrovamenti di Schliemann. La Troia omerica dunque, lungi dall’essere nell’attuale Turchia che, secondo Vinci, non corrisponde alla descrizione dell’Iliade, si troverebbe invece nella Finlandia meridionale.
C’è anche la teoria del giornalista Iman Wilkens, con il suo saggio intitolato Where once Troy stood (Dove un tempo stava Troia), che localizza l’antica Troia in Inghilterra, rilanciato grazie alla citazione del romanziere Clive Cussler nel suo Trojan Odyssey (tradotto in italiano con il titolo fuorviante di Odissea).
Riepilogando: le interpretazioni che generalmente accettiamo sembrerebbero un caso praticamente unico, fuori da tutti gli schemi e da tutte le logiche. Senza uno scopo, senza un autore, senza un committente, e che raccontano storie mai avvenute di personaggi mai esistiti, in luoghi introvabili, se non a costo di continue forzature interpretative. Però hanno un’unica ed essenziale qualità: sono vera poesia.
Se l’Iliade non narra gli avvenimenti di tutti i 10 anni in cui durò la guerra di Troia e si limita ai 49 giorni che precedettero la caduta della città, è comunque ricca di duelli, di battaglie e di azioni eroiche.
Il poema ha inizio con la rappresentazione di una pestilenza scoppiata nel campo dei greci e dovuta all’ira di Apollo, di cui il supremo condottiero, Agamennone, aveva offeso il sacerdote a lui caro, la cui figlia Criseide aveva fatto parte del bottino conquistato dai Greci ed era stata scelta, da Agamennone appunto, come schiava personale. Per far cessare la pestilenza, il consiglio dei duci decide di restituire Criseide al padre, privando il capo supremo della sua parte di bottino. Questi decide di togliere ad Achille la schiava che gli era stata attribuita – e con la quale si intuisce un legame sentimentale – così una lite violenta divampa fra Achille e il primo dei re. Il guerriero abbandona per protesta il campo e si ritira con i suoi in solitudine sdegnosa.
Il danno degli Achei è gravissimo perché, senza Achille, l’esercito perde la fiducia nella vittoria. I troiani, imbaldanziti, corrono allora all’assalto e compiono una grande strage, sotto la guida di Enea e di Ettore. Quest’ultimo poi, con grande sforzo, giunge fino alle navi greche e vi appicca il fuoco.
La desolazione degli Achei è profonda e ciascuno sente nel suo cuore che sarà la rovina di tutti se Achille non deporrà la sua ira e non tornerà a combattere. Ma l’eroe è irremovibile e. dopo aver accolto un’ambasceria che sollecita il suo aiuto, esprime un rifiuto netto e duro. Quando però Patroclo, l’amico carissimo, gli chiede di indossare le sue armi e correre in soccorso dei Greci ricacciati fino alle navi, allora Achille non sa più opporsi e consente che l’apparire della sua armatura atterrisca i Troiani. Egli non scenderà in campo, ma le sue armi saranno pur sufficienti a rovesciare le sorti della battaglia.
Ettore però scopre che sotto la fulgida armatura non si nasconde il possente Achille, ma un giovinetto più debole, anche se di gran cuore. Infatti lo affronta e lo uccide. Il dolore terribile sofferto per la morte di Patroclo fa dimenticare ad Achille ogni rancore. Il dio Vulcano fabbrica per lui nuove armi e l’eroe scende di nuovo in battaglia compiendo una strage: Ettore stesso è trafitto dalla sua spada, il cadavere legato al cocchio e trascinato sotto le mura di Troia, davanti agli occhi della moglie e dei vecchi genitori. È una scena che muove a pietà e commozione. E commozione forse maggiore ci muove il re Priamo che, tremante di vecchiezza e senza alcuna scorta, si reca al campo dei greci, nella tenda di Achille, per supplicarlo di rendergli il cadavere del figlio. Egli riavrà il cadavere, lo riporterà nella città e vorrà per lui, approfittando di una tregua, solenni e magnifici funerali. A questo punto, e cioè con un atto di umana pietà, si conclude il poema della guerra.
Questo per la cronaca.
Chiunque abbia composto l’Iliade ha saputo delineare con grande maestria il carattere dei personaggi. Eccone alcuni:
Achille, ad esempio, modernissimo supereroe che starebbe bene in qualsiasi fumetto, invincibile e immortale, salvo che non lo si colpisca nel famoso tallone. Bisex e capace di collere davvero epiche, ma anche di amore appassionato sia verso la sua schiava Briseide che verso l’amico Patrocle, la cui morte gli suscita un dolore così lacerante che le ninfe del mare, impietosite, usciranno sulla spiaggia per tentare di consolarlo. Achille è solo perché diverso, perso l’amico e la schiava, nessuno più accede alla sua intimità.
Ettore, il maggiore eroe dei Troiani, antagonista di Achille. Spesso sostituisce nel regno il padre Priamo, re di Troia. Marito di Andromaca e padre di Astianatte, sembra proprio un bravo ragazzo senza difetti e segreti, il classico Eroe che va a morire per dovere, dopo aver salutato moglie e figlio per l’ultima volta alle Porte Scee. Invece diventa poco eroico quando colpisce alle spalle Patroclo già ferito e, dopo averlo colpito a morte, lo schernisce, minacciando di lasciarlo insepolto, esposto agli uccelli predatori.
Ulisse, re di una minuscola isola, Itaca, è il furbone della faccenda. Quello che convince Ulisse a mandare Patroclo a morire, quello che “inventa” lo stratagemma del cavallo di Troia, quello che – detestato dalla metà degli dei per la sua scaltrezza – ci metterà poi altri diec’anni a tornare a casa (viaggio raccontato poi nell’Odissea)
Agamennone, il comandante in capo, prepotente e un po’ ottuso come solo i capi sanno essere.