Recensione a cura di Roberto Orsi
Qualche giorno fa, subito dopo aver concluso la lettura di questo libro, stavo guidando ragionando sulla recensione che avrei dovuto scrivere. La radio Trasmetteva una canzone di uno dei miei autori preferiti e alcune parole mi sono sembrate davvero calzanti:
Siamo chi siamo
un giorno c’era un doppio arcobaleno
un giorno c’hanno attaccati al seno
un giorno c’hanno rovesciato il vino
siamo chi siamo
siamo arrivati qui come eravamo
Si, perché Il bambino del treno è un libro che parla di noi, parla di uomini e donne comuni, generazioni per nulla lontane da quella attuale.
Giovannino Tini, il 18 giugno 1935,viene nominato capostazione di Fornello, nella campagna in provincia di Pistoia. Per chi arriva dalla città questo trasferimento è sicuramente di difficile impatto. Lucia, la moglie del Tini, ha diverse difficoltà prima di riuscire ad adattarsi alla nuova vita. A Fornello ci sono pochissimi negozi e solo per “i prodotti che non offrono già i contadini delle terre”. Se vuoi le uova, le devi andare a chiedere direttamente a chi alleva le galline. E non le paghi in denaro, qui ognuno fa la sua parte per la comunità, si ricorre spesso al baratto.
La stazione è il classico crocevia, gli abitanti della campagna prendo il treno per andare a Firenze o nei paesi vicini. In poco tempo Giovannino e Lucia imparano a conoscere gli abitanti di Fornello e di tutte le frazioni circostanti: ognuno di loro ha una storia che si porta dietro.
“Lucia e Giovannino sentivano ora d’appartenere a quella società dimenticata e avevano imparato ad apprezzarne i tratti caratteriali: il silenzio, la riservatezza, la dignitosa povertà. Si trattava di gente rustica – quasi tutti mezzadri e di gran cuore – che aveva fatto della fatica il motore perpetuo della propria esistenza”
La vita a Fornello scorre lenta, ma sono i tempi giusti. Sono i tempi della vita rurale in tempo di pace. Romeo, il figlio della coppia nato poco dopo il loro trasferimento cresce in campagna, il suo mondo sono la stazione, la famiglia e gli abitanti di Fornello. Anche l’ascesa del duce e la guerra in Etiopia sono vissuti come eventi “lontani” da ascoltare alla radio in dotazione alla stazione ferroviaria.
Il carattere Romeo, il figlio di Giovannino e Lucia nato poco dopo il loro trasferimento in Toscana, rispecchia l’atmosfera della campagna. Il bambino “fu sempre scarso di parole e abbondante d’occhiate e per questo Fornello era il posto giusto. Il suo modo di rapportarsi con il mondo consisteva nell’osservare (…)
Che cosa si poteva fare, del resto, in quella valle, se non osservare i tempi assoluti delle stagioni, la semplicità scandita dei lavori rurali, il correre pigro delle nuvole? “
Il libro nella prima parte scorre un po’ come la vita dei protagonisti. Ne seguiamo le vicende con un ritmo di sicuro non trascinante. Ma l’autore ne è consapevole, questo è il modo per lasciare entrare il lettore nella storia, lettore che senza quasi accorgersene si trova a pensare “queste sono le cose che mi raccontava il nonno effettivamente”.
Fino alla seconda parte del racconto: le leggi razziali sono state promulgate, gli ebrei sono deportati con i treni e uno di questi passa proprio da Fornello. La sosta di una notte, vite che si incontrano per non rivedersi mai più. Bastano poche ore alla famiglia Tini per impattare contro le atrocità del mondo esterno.
Romeo che ormai ha 8 anni è perplesso, così come il padre Giovannino che fino a quel momento aveva letto la parola “ebreo” solo sui giornali, senza mai incontrarne uno.
“Parlano italiano, sono italiani. Bambini, donne.. Che senso ha?”
Poche parole che racchiudono tutta l’incredulita di una situazione assurda. Il capotreno che guida il convoglio, amico di infanzia di Giovannino risponde con tutto il disincanto possibile:
“E io che senso ho? Ero commissario della pubblica sicurezza, ora sono tenente della guardia nazionale repubblicana. Tu, che senso hai? Capostazione di un luogo inesistente… Non occorre più aver senso per vivere. Non occorre aver senso e basta”.
Lo stile di scrittura dell’autore all’inizio mi ha un po’ destabilizzato. L’uso del presente storico affiancato all’imperfetto nel resto della narrazione mi è risultato ostico, ma questo “fastidio” è durato poco e mi sono facilmente abituato a questa alternanza.
Paolo Casadio ha la capacità, in questo libro, di emozionare con semplicità. Diversamente da altri libri ambientati al tempo dell’olocausto, non ci sono scene crude nè maltrattamenti spietati ad altri esseri umani. Riesce a toccare le corde giuste attraverso gesti semplici e i pensieri dei protagonisti sui quali soffermarsi durante e dopo la lettura.
Ecco perché la canzone che ho ascoltato alla radio in auto, mi ha colpito in quel momento. Romeo, il piccolo “bambino del treno“, non riesce a capire. Chi erano quelle persone? Cosa avevano di diverso dal resto degli abitanti di Fornello e della sua campagna Toscana che tanta sicurezza, tanto senso di famiglia aveva infuso in lui fino a quel momento della sua esistenza?
Perché dovevano essere strappati dalle loro vite all’improvviso?
In fondo “siamo chi siamo… Siamo arrivati qui come eravamo“, perché non possiamo continuare ad esserlo?
Trama
Il casellante Giovanni Tini è tra i vincitori del concorso da capostazione, dopo essersi finalmente iscritto al pnf. Un’adesione tardiva, provocata più dal desiderio di migliorare lo stipendio che di condividere ideali. Ma l’avanzamento ottenuto ha il sapore della beffa, come l’uomo comprende nell’istante in cui giunge alla stazione di Fornello, nel giugno 1935, insieme alla moglie incinta e a un cane d’incerta razza; perché attorno ai binari e all’edificio che sarà biglietteria e casa non c’è nulla. Mulattiere, montagne, torrenti, castagneti e rari edifici di arenaria sperduti in quella valle appenninica: questo è ciò che il destino ha in serbo per lui. Tre mesi più tardi, in quella stessa stazione, nasce Romeo, l’unico figlio di Giovanni e Lucia, e quel luogo che ai coniugi Tini pareva così sperduto e solitario si riempie di vita. Romeo cresce così, gli orari scanditi dai radi passaggi dei convogli, i ritmi immutabili delle stagioni, i giochi con il cane Pipito, l’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato. Una sera del dicembre 1943, però, tutto cambia, e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno conosciuto e amato viene spazzata via. Quando un convoglio diverso dagli altri cancella l’isolamento. Trasporta uomini, donne, bambini, ed è diretto in Germania. Per Giovanni è lo scontro con le scelte che ha fatto, forse con troppa leggerezza, le cui conseguenze non ha mai voluto guardare da vicino. Per Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza. Per entrambi, quell’unico treno tra i molti che hanno visto passare segnerà un punto di non ritorno.