Sesta Puntata della Storia della Scrittura a cura della nostra esperta Paola Milli
Se papiro e pergamena erano due supporti piuttosto difficili da produrre e quindi costosi, la materia scrittoria che contribuì alla relativa diffusione dell’alfabetismo in Europa nel basso medioevo e in età moderna fu senza dubbio la carta.
La sua fabbricazione iniziò nel II secolo d. C. nell’Impero Cinese. Secondo la tradizione l’inventore di questo materiale fu l’eunuco dignitario di corte Ts’ai Lun nel 105 d. C. I più antichi documenti cartacei pervenutici sono alcune lettere del 137 d. C.
In Cina la carta, fabbricata con vegetali e stracci, sostituì altri supporti come il legno, il bambù e la seta.
Fuori dalla Cina, questa materia scrittoria fu conosciuta solo dal 751 quando gli Arabi, appresa la tecnica produttiva in seguito alla cattura di due fabbricanti cinesi, impiantarono la loro prima fabbrica a Samarcanda. Di là la conoscenza e la produzione si diffusero a Bagdad, Damasco, in Persia, in Armenia e in Egitto.
La carta araba, fatta di stracci con collante d’amido, giunse in Spagna attraverso il Marocco nel X secolo e la prima cartiera europea fu impiantata dagli Arabi a Xativa nel 1151.
In Italia, la carta venne utilizzata dal XII secolo prima in Sicilia poi a Genova e a Venezia.
Le prime cartiere italiane di cui abbiamo notizia dal 1276 sono quelle di Fabriano dove nel 1320 operavano 22 fabbriche. Fondamentale per la costruzione delle cartiere era la presenza di corsi d’acqua in zona.
Nel Duecento entrarono in funzione cartiere ad Amalfi, Bologna e in Friuli. Nel secolo successivo la carta italiana, oltre al mercato locale, conquistò i paesi del nord Europa.
La tecnica di fabbricazione nell’Europa medievale rimase sostanzialmente invariata fino al XVIII secolo.
Gli stracci, selezionati, lavati e sfilacciati venivano fatti macerare in tini pieni d’acqua finché si riducevano in pasta. Nei tini erano poi immerse e quindi estratte le forme costituite da telai rettangolari di legno che trattenevano una rete di fili metallici disposti in senso orizzontale (vergelle) e verticale (filoni), nonché la filigrana che, visibile in trasparenza, permetteva di identificare la cartiera produttrice a seconda del disegno che poteva essere ad esempio, una scala o un paio di forbici.
Le forme – nelle quali era rimasto uno strato di pasta uniforme – venivano svuotate e lo strato di pasta era messo ad asciugare. Si creavano così i fogli che erano in seguito immersi in colla animale, compressi, asciugati ed impaccati.
I formati dei fogli prodotti in Italia sono indicati su una lapide del XV secolo attualmente conservata nel Museo Civico di Bologna e sono:
imperiale, cm. 74 x 50;
reale, cm. 61,5 x 45,5;
mezzano, cm. 51,5 x 34,5;
“rezuto”, cm. 45 x 31,5.
Il formato del libro variava a seconda che fosse in folio (un foglio di carta piegato in due), in quarto (foglio piegato in quattro), in ottavo (foglio piegato in otto) ecc.
Per identificare il formato di un libro si prendono generalmente in considerazione l’orientamento di filoni e vergelle, la posizione della filigrana, il numero delle carte che costituiscono il fascicolo, le dimensioni del foglio.
A seconda del tipo di testo si usava un formato specifico: la tipologia dei testi in quarto era varia; dai testi di letteratura più popolare alle opere cavalleresche. Fra il XV e il XVII secolo era il formato più diffuso in Italia perché maneggevole e robusto.
L’ottavo era utilizzato per opuscoli, libretti devozionali, canzonieri e classici.
Il sedicesimo era, fino al Quattrocento, il formato dei libretti liturgici e, nel Cinquecento, divenne quello delle edizioni di classici italiani e latini. Nel Seicento si usava per commedie, almanacchi, poesie.
In trentaduesimo si stampavano dapprima opere devozionali e, dal Cinquecento, testi di poeti come, ad esempio, Torquato Tasso.
Il più piccolo formato conosciuto è il 128°, di cui si può citare l’edizione Plantin del 1570 conservata al museo Plantin-Moretus di Anversa.